Regia di Pasquale Scimeca vedi scheda film
Biagio Conte è un vero rivoluzionario, uno che sul finire degli anni '80 del boom del consumismo decise di abbandonare la vita di agi che la propria buona famiglia palermitana gli garantiva, decidendo prima di ritirarsi nelle alture dell'entroterra siculo per vivere la natura, poi, entrato in contatto con le opere di Francesco d'Assisi, di pellegrinare verso la città del santo alla ricerca di Dio e del proprio scopo: che, una volta giuntovi, comprese essere quello di aiutare i più bisognosi, i reietti della società, coloro che non avevano un posto nel mondo; fu allora che tornò nella sua Palermo (sempre viaggiando a piedi, e sempre accompagnato dal cane Libero, che aveva salvato dalla morte togliendolo ad un pastore che voleva ucciderlo per essersi mangiato parte del gregge), per andare sotto i portici della stazione a condividere tutto ciò che aveva con i suoi fratelli e sorelle, ovvero barboni, alcolisti, prostitute e sbandati, occupando un ex disinfettatoio e dando vita alla Missione di Speranza e Carità.
Biagio non è un brutto film, piuttosto è un film sbagliato nell'approccio: quello di un regista, Pasquale Scimeca, che non riesce a frapporre la dovuta distanza tra sé ed il personaggio di cui intende decantare le lodi. Se da un lato, infatti, da ogni singola immagine trasudano l'amore e l'ammirazione che sente nei confronti di quest'uomo retto e coraggioso ai limiti dell'incoscienza, dall'altro la narrazione appare fin troppo schiacciata verso un'agiografia che tende a deformare i fatti rendendoli talvolta poco credibili, dove in mesi trascorsi a vagare - prima tra i monti e poi per le strade - l'unica avversità seria pare esser stata rappresentata dalla natura in ogni sua forma, mentre gli uomini da lui incontrati lungo il cammino troppo spesso trasformavano l'iniziale diffidenza, ritrosia od ostilità in tolleranza e cortesia in seguito ad un semplice sorriso o poco più.
Strutturato come un racconto che Biagio fa ad un regista amico (alter ego di Scimeca), il film si suddivide in una processione di incontri (o parabole) di alterna riuscita, un po' per l'eccessiva riverenza nel confronti dell'uomo (ma verrebbe meglio dire dell'intero genere umano), un po' per la tendenza alla semplificazione didascalica nella scelta di monologhi piuttosto forzati al posto di silenzi forse meno intellegibili ma potenzialmente più significativi.
E se è vero come è vero che Scimeca afferma di non avere il dono della fede, allora questa di Biagio è un'occasione doppiamente sprecata, avendo lui, in linea teorica, qualche anticorpo in più nei confronti della fascinazione che cotanta figura può emanare: certo, che da regista laico sia stato colpito dalla fascinazione di un missionario laico non si può fargliene una colpa, ma che il film nel complesso ne abbia perso è purtroppo un dato di fatto.
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