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Il nome del figlio

Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film

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La recensione su Il nome del figlio

di scapigliato
9 stelle

È successo qualcosa. È successo qualcosa durante la visione di questo film. In me qualcosa s’è sbloccato. Facile a motori ancora caldi sbandierare Il nome del figlio come uno dei miei film fondamentali e fondanti – anche perché avevo smesso di collezionarli da poco finendo con il 2014 di Torneranno i prati – eppure sento che posso farlo.

Mettiamo una sera a cena. Gli italiani intorno a un tavolo si psicanalizzano. Il convivio diventa uno psicodramma in cui rivediamo noi stessi, ci ripensiamo, ci critichiamo, ci commiseriamo, ma ci rendiamo anche conto che in fondo non siamo nemmeno brutte persone. La grande abbuffata (1973), La cena (1998), Ogni maledetto natale (2014) o Perfetti sconosciuti (2016), drammi, commedie, tragicommedie o cinepanettoni atipici, i film italiani omaggiano sempre l’arte culinaria, le cucine o il convivio stesso con i posti, le portate, le pause, i fiumi di vino. Una specie di rappresentazione mitologica del nostro paese disseminata quasi in ogni titolo. Ma quando un film è completamente imperniato attorno ad una cena o anche a un pranzo è perché non si vuole soltanto utilizzare il topos del convivio come modulo narrativo per enucleare alcuni temi tipici del nostro cinema popolare, ma poterlo utilizzare come locus dramaticus per eccellenza della tragica commedia farsesca del popolo italiano e di ogni suo singolo individuo. Il pretesto diventa così il testo e permette di leggere le storie, i personaggi e le tematiche come rappresentazioni verosimili della nostra esistenza.

L’effetto che fa Il nome del figlio è quindi quello di commuoversi per se stessi ed incazzarsi per se stessi mettendo in scena il dramma che diventa tragedia per finire commedia, rivelando così una specie di terapia di gruppo dove gli attori dello psicodramma sono a turno le nostre vite, i nostri volti e le nostre maschere – comprese quelle della tradizione.

Pur non conoscendo la pièce all’origine sia del film della Archibugi che di quello di Delaporte e de La Patellière (Le prénom, 2012) – gli stessi autore del testo teatrale - Il nome del figlio ha una (ri)scrittura solida, intelligente ed originale, spiazzante in più punti e ben congegnata dall’inizio alla fine. Supportato da un cast di razza – e Rocco Papaleo si dimostra così tra i migliori attori italiani degli ultimi vent’anni passando dalla commedia al dramma con classe e intelligenza – che vede primeggiare il gigionesco Gassman su tutti i colleghi, il film gode di uno stato di grazia inaspettato e generoso. Inoltre, l’ottima scelta di Dalla con Telefonami tra vent’anni (Qdisc, 1981), la camera in movimento quasi a rompere con il vincolo dell’immagine fissa teatrale e i flashback delle estati nella casa di famiglia – anche se non indispensabili – organizzano, tessono, connettono il materiale narrativo con una leggerezza e un disincanto ispirati.

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