Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film
Quando l'agente immobiliare Paolo Pontecorvo, rampollo di una prestigiosa famiglia di partigiani ebrei, comunica durante una cena a casa del cognato Sandro e della sorella Betta che il nome scelto per il suo primogenito sarà Bettino, innesca una accesa discussione politica, culturale e personale che finisce per coinvolgere anche Simona, moglie di Paolo ed il loro comune amico Claudio. La scelta del nome si rivelerà una boutade ma anche l'occasione per disseppellire antichi rancori e nuove recriminazioni che metteranno inevitabilmente gli uni contro gli altri. Almeno finchè la nascita inaspettata di una di una bambina non rimetterà le cose a posto e riporterà l'armonia in famiglia.
Piece teatrale (Le Prénom di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte già adattata per il grande schermo dagli stessi autori nel 2012 ne la 'Cena tra amici') trasposta nelle forme di una tragicommedia da camera, richiama il gusto della Archibugi per il valore dell infanzia come luogo da cui si originano sentimenti e relazioni capaci di perdurare nel tempo, ma anche del senso di una inevitabile trasformazione che stravolge le vite di protagonisti capaci di scoprirsi sconosciuti non solo gli uni agli altri ma persino a se stessi. Se il film francese brillava per il solito funanbolismo verbale e la leggerezza di toni sempre sopra le righe, la Archibugi vira verso l'artificiosità di un dramma che vuole richiamare la trasversalità del pregiudizio sociale e culturale e di un pensiero (dominante?) radical chic capacissimo di guardare i difetti degli altri ma totalmente miope quando si tratta di vedere i propri, avvitandosi su di una struttura verbosa e volubile in cui abbondano il doppio senso ed il colpo di scena senza costrutto; solo per dirci che nessuno ha ragione ma neppure torto e ritrovare la quiete dopo una tempesta che richiama vecchi mestieranti di Hollywood che sapevano per filo e per segno come si scriveva una commedia senza prendere veloci appunti su di un tovagliolo di carta.
Quello che fa difetto al film, più che gli evidenti limiti di una messa in scena in cui la delega agli attori soverchia le loro reali capacità, è lo stucchevole punto di vista di chi inquadra le dinamiche di una resa dei conti socio-culturale (nell'ordine: i rampolli dell'aristocrazia borghese di sinistra, l'intellettuale imbucato di umili origini, il figlio della servitù diventato amante e confidente ed infine il trofeo sessuale di un sottoproletariato urbano in cerca di un improbabile riscatto culturale) dal punto di vista di un ceto sociale fasullo e vanesio che esiste solo nella accomodante immaginazione dell'autrice.
Attori bravissimi, per carità, ma prigionieri di ruoli e di luoghi comuni che non saranno quelli insopportabili di Muccino e della Comencini, ma che odorano di fuffa lontano un miglio e che finiscono per vomitarsi addosso le rispettive insoddisfazione umane e professionali come da copione per chiedersi scusa un minuto dopo come se nulla fosse successo. Verrebbe da dire, nella geometrica implacabilità della trama, che l'operazione è perfettamente riuscita ma il paziente è immancabilmente morto, o meglio è nato (stato?) il figlio che poi speriamo sempre che sia femmina. Insomma si cita Pontecorvo (sotto le mentite spoglie di un ex eroe della resistenza comunista diventato regista, pardon deputato) ma si pensa a Monicelli e nel dubbio si scimmiotta Bergman. Forse era meglio provvedere a qualcosa di più originale ed emotivamente credibile senza dover necessariamente irritare lo spettatore con tutte queste moine e giri di parole in grado solo di fargli la testa come un pallone: tra la Critica della Ragion Pratica e Lucio Dalla, si sa, il passo è breve ed i panni sporchi si lavano sempre e solo in famiglia.
Nastri d'Argenti 2015 per Gassman come migliore attore protagonista e per la Ramazzotti come miglior attrice non protagonista.
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