Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film
E con un salto siamo nel duemila, cantava Lucio mentre l’Italia eternamente in transizione lentamente usciva dalla transizione del terrorismo e la borghesia dei cinquantenni di sinistra saltellava dentro i sacchi a strapiombo sul mare, un po’ per noia finto moraviana e un po’ per allontanarsi dal presente che non ci comprende e comunque sempre incompreso. E siamo nel duemila, il millennio nuovo e le vecchie ossessioni e i vecchi orticelli, in cui, dopo un tuffo acrobatico al rallentatore, i figli dei borghesi di cui sopra hanno preso il posto dei padri ingombranti e si sono ritrovati con un grande avvenire dietro le spalle.
Il ceto medio riflessivo è il suo pubblico di riferimento, ma è riduttivo limitare Il nome del figlio ad una sorta di mainstream di sinistra veltrona ai tempi della morte delle ideologie. Ed è qualcosa di più dell’adattamento di una commedia francese. È il racconto di una generazione inadeguata che non sa relazionarsi col padre di cui balbetta, se non proprio omette, il nome o che lo venera per accreditarsi come erede pur non essendolo di diritto o che lo espia cercando nei maschi che sono rimasti la necessità di un sostegno. È la rappresentazione, forse allegorica, di una classe sociale (la borghesia di sinistra) che non ha mai avuto pace sociale per sua stessa scelta, che si vergogna della frivolezza se non in una dimensione snob (il tweet come neo-aforistica, la cucina chic, il Califfo arrangiato in chiave jazz).
È lo psicodramma del nome da scegliere perché non bisogna urtare la sensibilità altrui né tantomeno si può rinunciare ad omaggiare i propri miti domestici o culturali, degli altarini svelati drammaticamente ed elaborati ineluttabilmente per continuare a vivere e a far vivere. Telefona tra vent’anni, sembrano dire gli adolescenti degli anni settanta, ma anche tra trenta, quaranta, e vediamo cosa resta del cuore nella borsa, oppure pensiamoci tra vent’anni con la barba più bianca, la bici da corsa, la televisione (che diventa lo smartphone), la torta in mano, il telefono che suona ogni sera e guardiamoci: come può la memoria cancellare il passato?
È come una canzone di Lucio Dalla, attraversata dalla dolcezza mai mielosa né superficiale della mobilissima macchina da presa di Francesca Archibugi che carezza i volti come l’imprevedibile ma presente matrona dei Pontecorvo ed esplora la casa colma di libri e feticci di un passato impossibile da rimuovere. E pure con la semplicità scintillante dei bambini che tutto intendono e qualcosa capiscono, come quel futuro evocato, o per meglio dire descritto, da un finale che più vitale non si può.
Magari, come in qualche canzone di Dalla, qualche parola di troppo nelle strofe vuole spiegare qualcosa che è già chiaro nei ricordi del presente (i flashback marittimi), giocando più sulla sicurezza di un’operazione collaudata che sul rischio di un’asciuttezza narrativa per alcuni incompiuta. Però va bene così, perché pur coi suoi difettucci il film corre via come un treno nella notte con serena esuberanza ed onesta leggerezza. Film coerentissimo e ponderato, grande commedia borghese con cinque interpreti spettacolari.
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