Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film
Vedi a volte, ad essere troppo prevenuti..... Ritrovare una regista “fidata” e dalla quale ci si può aspettare sempre lavori quanto meno interessanti, se non davvero riusciti ed intensi, dopo molti, troppi anni dalla sua ultima regia di un lungo a soggetto (il precedente e riuscito Questione di cuore è datato addirittura 2008) impegnata a cimentarsi con l'ennesimo, precoce, inutile, scaltrissimo remake di un fresco successo d'oltralpe, mi faceva preventivamente storcere il naso.
Pensando soprattutto a quanto avvenuto di recente con quei ben due non proprio indispensabili (se non per fare palate di soldi) “Benvenuti al sud”, poi “al nord” dei vari svendutissimi registi Miniero e “Genovesi(e)” - non ricordo mai la differenza tra i due, ammesso che ci sia oltre alla vocale finale. Un ritorno in regia in questo senso mi sembrava un atto di svendita e tradimento di una carriera all'insegna del sentimento e di una delicatezza di fondo con la quale una cineasta ispirata e dotata aveva saputo per oltre un ventennio valicare abilmente e con coerenza il genere drammatico fino ad arrivare alla commedia anche divertente del suo penultimo già citato lungometraggio.
“Il nome del figlio” tuttavia, dimostra già da subito, dal suo avvicendamento, uno sforzo di costruzione che sposta su due differenti archi temporali il racconto contemporaneo di una vera e propria cena delle beffe, che si svolge una sera in un ampio ed accogliente appartamento della Roma borgatara e un po' periferica, un tempo zona quasi malfamata o comunque occupata dallo strato sociale meno abbiente, ed oggi rifugio di lungimiranti famiglie borghesi che vi si sono insediate magari decenni prima a prezzi di svendita, ed ora vedono il valore del loro bene immobile lievitato a dismisura, pur in tempo di crisi del mattone.
In questo contesto due coniugi istruiti e realizzati invitano a cena il fratello di lei, immobiliarista arricchito, bello e gradasso, e la consorte, star della televisione ora impegnata a lanciare un libro già in testa alle vendite e per questo in ritardo rispetto agli altri invitati; a chiudere il cerchio infine un caro amico d'infanzia di tutti i precedenti.
Il pretesto è comunicare che la coppia di invitati (yuppie + star televisiva) aspettano un bambino: da questo particolare nasce per gioco l'idea (pessima) del futuro papà di far credere agli altri commensali che il figlio, a quanto pare un maschio, verrà chiamato Benito (nell'originale francese era Adolphe).
I padroni di casa - lui intellettuale di sinistra, lei di famiglia di origini ebraico benestanti, perseguitata dai fascisti ai tempi della guerra – se la bevono alla grande, e la scossa che la notizia fomenta diviene la scintilla che fa scoppiare un vero e proprio incendio: un'esplosione che la sapiente verve di sceneggiatrice della Archibugi, qui coadiuvata in modo consono da Francesco Piccolo, dimostra di saper manovrare e destreggiare con disinvoltura, motivando ancor meglio dell'originale francese le origini di un malessere che coinvolge e rende sottilmente infelici ed irrisolti ognuno dei partecipanti alla cena: chi invidioso, chi non realizzato, chi nascosto in un segreto inconfessabile, chi diviso ideologicamente sempre e perennemente da quello che dovrebbe essere il suo migliore amico o, ancor più, il proprio compagno o compagna di vita.
E certo, è pur vero, che Lo Cascio e Gassman si ritrovano sempre più spesso (forse un po' troppo spesso) a recitare lo stesso medesimo ruolo, qui cognati, altrove (in I nostri ragazzi di De Matteo) fratelli antitetici, rispettivamente emblema e mentalità di una sinistra opportunista e un po' falsa e di una destra volgare e superficiale, ambedue aspetti ugualmente mostruosi ed inquietanti, ma antitetici, di un'Italia del compromesso tra cultura fine a se stessa ed ignoranza che aiuta a farsi strada tra la folla, rendendo vincenti.
Ma al film, e di conseguenza alla sua regista, azzeccato il binomio opportuno tra un'infanzia irrisolta e piena di rivalità e risentimento, ed un presente che non sa dimenticare, ma anzi fa affiorare tutto il marcio che non si è mai potuto veramente nascondere, basta seguire la bravura di cinque tra i nostri più interessanti e noti volti nazionali (oltre ai citati ci sono anche Golino, Papaleo e naturalmente la Ramazzotti, anche lei, nel bene e nel male sempre uguale a se stessa e al suo personaggio di svampita con orgoglio) per non far rimpiangere l'originale, né la capitale francese originariamente intravista dal motorino e sostituita qui da una non meno affascinante Roma vista dall'alto, che rifugge imperatori e papi per sorvolare i quartieri più periferici e troppo spesso tralasciati o dimenticati.
E tra scomode, imbarazzanti, impossibili verità che vengono fuori con un impietoso irriverente afflato teatraleggiante (il testo di base è una pièce francese), tra cantate a squarciagola presenti e passate di canzoni di Lucio Dalla che hanno fatto scuola ed epoca, il film ha anche il modo, tra flash-back e sporadiche uscite dalla casa, di prendere aria e di non risultare troppo soffocante o soffocato dalle solite pareti domestiche di case sempre un po' troppo appariscenti e scenograficamente sin troppo sofisticate, grandi, anzi vastissime come templi greci. Cosa che invece, almeno in parte, opprimeva un po' nel pur valido originale francese, di gran successo e non solo in patria ma anche qui da noi.
Il parto “vero” della Ramazzotti, con la sua Anna attrice al primo vagito, è un atto di orgoglio tutto istintivo da toscanaccio irrefrenabile di un Virzì produttore che non ha saputo evitare di tentare di sfruttare un evento capitato opportunamente nel momento giusto: non proprio di buon gusto, ma in fondo un peccato veniale che non rovina tutto quanto visto fino alla fine.
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