Regia di Rob Reiner vedi scheda film
“Le cose più importanti sono le più difficili da dire” si legge in Il corpo, lungo racconto di Stephen King contenuto in Stagioni diverse del 1982. Se l’originale letterario è anche meta-discorsivamente una riflessione sul ruolo della letteratura, dell’arte, delle parole e quindi dello scrittore, l’adattamento cinematografico diretto poco dopo da Rob Reiner è più incentrato sul caro tema americano di preadolescenti che crescono, superano la soglia, incontrano la morte e il dolore e diventano adulti, restando ancora imprigionati in un corpo adolescente dagli istinti e dalle pulsioni adolescenziali. Ovvero, il tema eterno del puer, del ragazzo, dell’adolescente, come simbolo di incorrotta bellezza, di edonistica e connaturata ribellione alle regole e alla disciplina borghese, di tonica, euforica e ambigua sessualità, tutto quello insomma che manca ai compromessi adulti una volta entrati con responsabilità nella società che conta.
Tutti figli di Huckleberry Finn. Tom Sawyer aveva fissato i termini dell’archetipo qualche decennio dopo che Melville, Cooper, Poe, Hawthorne, Emerson e Thoreau avevano fissato per sempre i miti fondativi della neonata nazione americana. Miti che parlano di individualità, di scoperta e avventura, l’incontro/scontro con la wilderness e i suoi oscuri signori, dalle bestie feroci agli indiani. Miti che come Fiedler sintetizza bene - Amore e Morte nel romanzo americano (1960) e Il ritorno del pellerossa (1968) - sono in ultima analisi, la fuga dalla femminilità e la fuga nella maschilità o meglio il matrimonio tra maschi, quindi la fuga nella wilderness. Insomma fughe. E cos’è Stand by me, e ovviamente Il corpo, se non il racconto di una fuga? Una fuga dal focolare domestico - quindi dalla femminilità - ma anche dal padre - altro mito fondativo americano è uccidere il padre. Fuga nella wilderness per incontrare la morte, perdere coscientemente l’innocenza e crearsi gli anticorpi per un mondo che potrebbe farti diventare come Ace Merrill a quarant’anni - come si legge nell’ultima pagina del racconto.
Le differenze con l’opera di Stephen King, tra i maestri indiscussi del racconto adolescente declinato al fantastico - dopotutto cos’è il passaggio della soglia se non un momento di incontro con l’ignoto e la paura abissale del mondo? - sono poche e poco influenti. Certo danno un’idea precisa di adattamento, ma non scalfiscono l’idea originale del racconto, anche se lo rendono più positivo dell’originale. La morte infatti in King si respira pesantemente e pervade la vita di ognuno, dal fratello della voce narrante Gordie Lachance, al corpo mezzo massacrato di Ray Brower sui binari della GS&WM, alla morte apparente dei genitori assenti, vivi come degli zombie, fino alla morte che coinvolge i compagni di avventura negli anni a venire. Vern, Teddy e Chris moriranno. Gordie e il suo acerrimo nemico, il bullo Ace Merrill, no. Sopravvivranno. In Reiner invece, nonostante un approfondimento notevole della figura del fratello morto, la morte è limitata al cadavere del povero Ray Brower, spersonalizzato di tutto, nessun flashback che ce lo mostra mentre era in vita. Mentre la morte che andrà a prendersi i vecchi amici di paese sarà solo una sintetica informazione di Gordie adulto, allibito per la morte recente dell’amico Chris - morte che resta sullo sfondo come un convitato di pietra che viene a riemergere il rimosso - e dedito alla stesura del suo nuovo libro che racconta appunto della sua vecchia avventura.
Per il resto, racconto e pellicola viaggiano sugli stessi binari. Mettono in scena la perdita dell’innocenza attraverso il superamento della soglia, simbolizzata dalla wilderness, il bosco inospitale con i coyote che ululano, il caldo massacrante, il temporale sconquassante, le sanguisughe vampiriche, la casa dell’orco Milo Pressman e il suo cerbero spaventoso, il bastardino Chopper. Anche attraversare il fiume, il Castle, sugli alti binari della ferrovia e rischiare la morte è forse la più simbolica di tutte le fasi di passaggio. Il rituale è confermato dalle parole dello stesso King quando dice: “Esiste un rituale per ogni evento fondamentale, i riti di passaggio, il corridoio magico in cui avviene il cambiamento”. Qui il rituale è la sfida dei ragazzini ad ogni imprevisto, e il cambiamento è la testosteronica presa di coscienza di sé come uomini. Caso a parte un giovanissimo River Phoenix qui già altamente fascinoso, dal fisico già maturo e virile che sovrasta il resto del cast come “uomo” nelle forme che si intravedono sotto maglietta e mutande, nelle pose interne al gruppo e nei discorsi: non sono solo le battute di un racconto messe in bocca ad un attore, ma una presa di coscienza adulta di tali discorsi veicolati dalla propria fisicità.
Va registrato che né nel racconto né nel film si fa cenno all’omoerotismo, tappa indispensabile di ogni racconto formativo sull’adolescenza - anche perché esso stesso è tappa dell’adolescenza. Se escludiamo l’unico shirtless-time del film, quando i ragazzini restano in mutande per togliersi le sanguisughe, non rintracciamo nessun altro momento di intimità condivisa né nessun accenno al sesso con le ragazze, se non le solite battute infantili. Tutto fa pensare ad universo asessuato in cui la componente orrorifica e fantastica è l’unica a farsi dispositivo narrativo per la rappresentazione del mondo teen. La realtà potrebbe essere anche diversa, e l’assenza di una componente erotica potrebbe esser data dalla castrazione sociale di cui sono vittime i ragazzini protagonisti: genitori assenti, alcolizzati, irrimediabilmente morti dentro; insegnati immorali, commercianti sleali e bulli violenti. Ad ogni modo, sia il racconto che il film, ma soprattutto il film grazie al valore aggiunto delle immagini, riescono ad attivare nello spettatore/lettore la nostalgia per un mondo, quello adolescente, fatto di istinti primitivi, di slanci amicali incondizionati, di una intimità condivisa che non dava imbarazzo, fino alla rappresentazione del dolore, della morte, della decadenza e dell’invano tentativo di preservare “il corpo” dalla corruzione del tempo.
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