Regia di Andrej Tarkovskij vedi scheda film
E' forse il film più "semplice" di Tarkovskij, quello più "indifeso", più puro in definitiva. Da consigliare, probabilmente, a chi vuole avvicinarsi all'universo tanto affascinante quanto impervio del compianto cineasta russo. Lontano dal rapsodismo sfaccettato e sviante di Andreij Rublev come dall'enigmatico e camaleontico "stream of consciousness" dello Specchio, Stalker riparte invece dalla fantascienza "astratta" di Solaris, di cui riprende l'idea di un cine-mondo generato dalla coscienza stessa dei personaggi. Se il pianeta Solaris materializzava ricordi, sogni, pensieri degli astronauti, la stessa cosa accade (anche se solo concettualmente) nei paraggi della "Zona", solo con un maggior grado di concisione ed essenzialità. Non che Stalker sia una versione banalizzata di Solaris, poichè sotto certi versi ne aumenta invece i risvolti tematici e filosofici; men che meno, che riveli un Tarkovskij che "arretra" dalla sua stoica battaglia per il primato dell'immagine pura ("Un cane nero è niente più che...un cane nero"), arenandosi in uno sterile simbolismo. Non inganni il fatto che dei tre protagonisti, due siano chiamati con gli eloquenti pseudonimi Scrittore e Professore (scienziato): Stalker non propone certo una dialettica fra Arte e Scienza, nè riduce i due personaggi a meri supporti ideologici. Che poi tali Scrittore e Professore siano anche vettori di un discorso esistenziale volto ai massimi sistemi, non priva certo questi di dolente umanità nè il film di squarci di abissale poesia. Nella prima parte, ambientata nel livido bianco-nero della vita "reale", il film presenta quasi una inopinata struttura da film "di genere": la preparazione della partenza per la "Zona", i misteri, gli aneddoti, i blitz e gli spari delle forze armate, la fuga sulle rotaie etc...generano una suspence che, per quanto condotta su binari antifrasticamente contemplativi, risulta insolta per un film "d'autore", e che poi verrà replicata in diversi momenti successivi (i movimenti cauti dei protagonisti, minacciati dalle insidie invisibili della "Zona", degne di certi finali da thriller). In un certo senso, pare quasi l'involontaria risposta a distanza alla nuova (a fine anni 70) e spettacolare SF hollywoodiana, ai suoi meravigliosi "incontri ravvicinati": solo che Tarkovskij evita genialmente, con opportune ellissi, ogni possibile deriva enfatica ed effettistica. L'avventura, la ricerca, la scoperta degli anti-eroi tarkovskijani è rivolta ad una presenza aliena che in realtà non è altro che la propria, complessa, imperscrutabile psiche individuale: la fatica, l'affanno, i dubbi, i tormenti provati dai personaggi non rappresentano altro che il tortuoso e precario percorso che ognuno di noi compie verso la conoscenza, nell'arco di una intera esistenza. Nella Zona (e negli inimitabili carrelli che la "scolpiscono") vi è il Tempo: la Natura violata, contaminata dall'Uomo, i suoi oggetti, i segni della sua presenza passata, i reperti della sua civiltà auto-distrutta...Nella Zona vi è la desolazione di un presente carico di rovine, di fallimenti, di rimorsi, l'incubo di una Verità impossibile da reperire (sia quella scientifica, empirica, fattuale che conferisca senso morale al progresso tecnologico; sia quella artistica scaturita da una ispirazione creativa che sia in qualche modo "utile" al genere umano). Nella Zona vi è il luogo dell'abiezone umana, dei recessi più cupi del proprio incoscio, dei suoi desideri più perversi. Ma la Zona è anche lo spazio (sempre mentale, sempre diverso per ciascuna persona, sempre mutevole e ricreato, attimo dopo attimo, dalla psiche individuale: così si spiegano i paradossi spazio-temporali che regolano le azioni dei tre protagonisti) della Fede, quella umile e cieca dello Stalker, privata di qualsiasi simbolo o icona cristiana o di qualsiasi altra religione: una Fede panteistica (dovzenkiana) nel "tutto" (nel cinema, probabilmente: in quella sublime rappresentazione del "mondo intero riflesso in una goccia d'acqua" che è stata l'ambizione primaria di Tarkovskij). Da questo punto di vista, Stalker è forse l'opera maggiore del regista moscovita, quella più compiuta nel mettere in poesia filmica questo senso di "totalità". Il regista evita, come detto, ogni manicheismo, spesso confondendo e miscelando i presunti ruoli, scardinando i lati del triangolo Arte - Fede - Scienza, saltando a pie pari ogni retaggio ideologico, inquadrando i tre uomini spesso rannicchiati al centro dell'inquadratura, uniti l'uno con gli altri, impauriti, fragili, deboli, indifesi. Stalker è un inno alla "debolezza" come stato favorevole alla creazione, alla vita quindi; un inno all'Uomo che viene sempre e comunque denudato dalle sue maschere (lo Scrittore, il Professore) come, ad esempio, nello splendido carrello che precede l'ingresso nella Zona, coi volti pensierosi e silenti di ciascuno dei tre uomini ad occupare l'intera inquadratura, mentre il veicolo li trasporta nella terra delle illusioni; un inno ad una Fede assoluta, pura, umana, universale. Più ancora che nel finale dreyeriano o nella desolante e dunosa prigione-deserto, nelle ellissi e nelle volute incongruenze logiche e temporali che punteggiano la "scultura" tarkovskijana, il climax del film sta nell'intensa ed onirica sequenza centrale: tre uomini straiati a terra, esausti in dormi-veglia, il bianco-nero che si alterna al colore, la musica discreta e solenne al contempo, la voce fuori campo dello Stalker che recita una preghiera per gli altri due, mentre l'acqua di un pozzo viene scossa da un sasso, le carezze della mdp, gli ipnotici sguardi in macchina, una cane nero che va a fare compagnia al suo padrone...immagini intense, in cui è racchiuso tutto il senso di una poetica, la sua sofferenza, la sua onestà, la sua ambizione universale, il suo fervore mistico. Fondativo, direttamente o meno, di tanto importante e discusso cinema contemporaneo, da Tarr a Lynch, da Reygadas e Trier, Stalker non è nè più nè meno che un capolavoro.
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