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Stalker

Regia di Andrej Tarkovskij vedi scheda film

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La recensione su Stalker

di Peppe Comune
10 stelle

In un luogo indefinito e in un tempo non precisato è accaduto che un misterioso meteorite si è schiantato sulla terra provocando notevoli variazioni al naturale ordine delle cose. Soprattutto, si è prodotta la separazione tra il mondo degli umani e quella che viene denominata la “Zona”, un luogo magico in cui avvengono misteriose sparizioni, pieno di tranelli mortiferi e arcane visioni. Protetta dalla ferrea vigilanza dell’esercito, solo gli Stalker conservano qualche possibilità di uscire vivi dalla Zona, solo loro conoscono la natura delle insidie che vi si possono incontrare e la mutevole morfologia del territorio. Solo loro sono in grado di condurre gli occasionali visitatori fino alla “Stanza”, una sorta di centro gravitazionale di ogni sapere conosciuto in cui chi vi arriva può chiedere che venga esaudito il desiderio più grande che conserva in fondo all’animo. Uno di loro (Aleksandr Kajdanovskij) accetta di accompagnare due uomini all’interno della Zona, uno scrittore (Anatolij Solonicyn) e uno scenziato (Nikolaj Grinko), lasciando così sole la moglie (Alisa Frejndlikh) e la figlia paralitica (Natasa Abramova ). Per un viaggio al centro dell’universo che potrebbe essere anche l’ultimo.

 

scena

Stalker (1979): scena

 

 

“Stalker” di Andrej Tarkovskij (liberamente ispirato al racconto “Picnic sul ciglio della strada" dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij) è un viaggio “dantesco” negli insondabili misteri del creato, un distillato sublime di tecnica cinematografica al servizio di un incantevole riflessione sulla natura dell’uomo e il senso della vita che si fa etica dello sguardo. L’autore russo ci immerge in un paesaggio acquitrinoso, tra i relitti di un mondo dismesso e la ricerca itinerante di un sapere “irraggiungibile”, dove è la presenza fondamentale e fondativa degli elementi naturali (soprattutto dell’acqua, acqua dappertutto) a fungere da centro gravitazionale di ogni mondo possibile e dove i passaggi cromatici dal bianco e nero virato in giallo della città e i colori sgargianti della Zona danno l’idea della differenza tra ciò che è transitorio in quanto precario e ciò che rimane necessario perché eterno. Segnato dal  mirabile equilibrio tra speculazione filosofica e istanze dell'animo, il film è permeato da una forte carica spirituale, una spiritualità laica perché è immanente alle cose del mondo e perchè non ha una natura trascendente ma si accompagna ai percorsi della ragione accrescendone la carica vitale. La struttura dicotomica del film, l’armoniosa antiteticità della sua natura speculativa, è resa simbolicamente dal viaggio intrapreso nella Zona in compagnia dello Stalker dallo scrittore e dal professore, sia attraverso la diversa formazione culturale che li divide in ragione di modi differenti di decodificare i segni dell’universo sensibile, che per mezzo dei dubbi intellettuali che li accomunano nel segno della stessa paura di affrontare l’ignota indeterminatezza di una verità rivelata. Il professore è portato a concepire l’universo come ad una concatenazione di eventi che si susseguono secondo il necessario rapporto di causa effetto. Lo scrittore è più incline a guardare le cose seguendo l’imponderabile casualità degli eventi che permeano nel profondo l’ordine del mondo. Ma tanto il calcolo razionale quanto l’astrazione intellettuale perdono di ogni consistenza cognitiva all’interno della Zona, dove la ricerca massima della conoscenza comporta l’abbandono del modo solito con cui ci si rapporta con le nozioni di spazio e tempo, dove la strada più consona per arrivare alla meta non è sempre quella più corta e dove le carcasse di carri armati abbandonati , case diroccate, binari ciechi, nel loro essere le macerie di un mondo defunto, danno sostanza a quell’assoluta mancanza di coordinate riconoscibili che accomuna i rispettivi percorsi esistenziali. Penetrare la Zona e sfidare tutte le insidie che la popolano per arrivare fino alla Stanza, nel centro chiarificatore di tutti i misteri, significa, di per se, iniziare a farsi delle domande sulla natura profonfo dell’uomo, su quale carattere permea maggiormente la sua condotta di vita : l’istintiva propensione a perseguire un utile individuale o la capacità altruistica di sapersi in pace solo in sintonia coi propri simili ? essere attratto dal male o riconoscere il bene in quanto tale ? Porsi queste domande significa iniziare a dubitare della propria stessa natura, scoprirsi deboli rispetto alla volontà di potenza di cui si può entrare in possesso. Significa aver paura della Stanza che, da luogo che può esaudire ogni richiesta, si trasforma in quello che può realizzare solo i desideri più intimi e segreti, quelli che caratterizzano nel profondo l’essenza di ogni uomo e “anche se non ne sei perfettamente cosciente, li porti dentro e ti dominano sempre”. Ecco l’esito del viaggio (o uno dei possibili almeno) : la scoperta della limitatezza umana rispetto all’immensa voragine della conoscenza. Ed ecco la grandezza di Andrej Tarkovskij, che si avvicina ai grandi temi del pensiero filosofico senza risultare didascalico e senza alcuna accenno moralizzante. La sua equidistanza dalle cose che tratta è la stessa che caratterizza lo Stalker, un novello “Caronte” che si accompagna alle dispute dottrinarie dei due compagni di viaggio riparandosi dietro la fideistica accettazione di un mito. Il suo linguaggio cinematografico è proiettato in avanti pur facendo ampio utilizzo della sempiterna potenza creatrice degli elementi della natura. La sua capacità di fare un arte per l’arte si sposa col destino sfortunato della piccola figlia dello Stalker, che riesce a spostare un bicchiere con la sola forza del pensiero, un pensiero che nasce dalla ferma volontà di poterci credere. Il finale ce la restituisce come l’unica fonte di colore in mezzo a un mondo tinto di grigio, sommersa dall’Inno alla gioia che suona come un inno al futuro.

 

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