Regia di Florestano Vancini vedi scheda film
Vittorio Borghi (Enrico Maria Salerno) è un giornalista quarantenne in preda ad una profonda crisi esistenziale. Ha appena concluso un’intensa relazione amorosa con EleIina (Jacqueline Sassard), una ragazza molto più giovane di lui che, pur amandolo ancora, ha voluto troncare una storia senza futuro. Il suo matrimonio con Milena (Valeria Valeri) sta andando a rotoli e non riesce ad essere un buon padre. Inoltre, è deluso dalla politica ed ha finito per smarrire lo slancio militante. Decide di rimanere un po’ di tempo da solo e se ne va a Mantova, la sua città natale, il luogo dove è vissuto prima di trasferirsi a Roma e dove vivono ancora molti dei suoi vecchi amici. Leonardo Varzi (Gian Maria Volontè), Carlo Di Giusti (Gastone Moschin), Olindo Civinini (Checco Rissone), persone con cui Vittorio ha condiviso la fede comunista e l’esperienza della Resistenza contro il regime fascista. Poi c’è Francesca (Anouk Aimée), un suo vecchio amore. A Mantova, Vittorio Borghi cerca di trovare nei ricorsi di esperienze passate il modo per tirare avanti e lenire le sofferenze del cuore.
“Le stagioni del nostro amore” di Florestano Vancini rientra nella schiera nutrita di quei film che (specialmente) negli anni 60-70 cercavano di affrancarsi dal “dominio” stilistico della (cosiddetta) “commedia all’italiana” per approdare ad una narrazione più asciutta e di marcata impronta letteraria. Autori come (appunto) Florestano Vancini, Valerio Zurlini, Antonio Pietrangeli, (il primo) Elio Petri, (il primo) Michelangelo Antonioni, di quella poetica conservavano l’attendibilità delle descrizioni d’ambiente e la caratterizzazione “tipizzata” dei personaggi, ma concentrandosi di più sull’anima meditabonda dei protagonisti, sulla loro vocazione alla solitudine, sulle loro esistenze colte nei momenti di massima crisi identitaria.
“Le stagioni del nostro amore” è un film che vive di passioni forti inquadrate nel momento esatto in cui queste si sono spente, o perché alimentata dal sentimento amoroso che non può trovare nell’altra l’ideale corrispondenza, o perché divorata dall’insano demone del disincanto. Vittorio Borghi vive ormai una vita da ex, dato che è un ex amante, un ex comunista, un ex padre di famiglia e forse anche un ex giornalista visto la piega che sta prendendo la sua vena creativa. Il film inizia con la fine del rapporto tra Vittorio ed Elena, i cui tratti essenziali fanno capolino lungo tutto il film che alterna, ai ricordi dolci di un rapporto fresco e gioviale, i resoconti inoppugnabili di un amore che non poteva e non doveva continuare. Un fatto chiaramente centrale nell’economia narrativa del film, ma tuttavia, la crisi esistenziale dell’uomo può essere spiegata anche altrimenti. Vittorio Borghi è stato lasciato da una donna che dice di amarlo ancora ma che preferisce continuare la sua vita senza più vederlo; convive con l’impossibilità di poter recuperare il rapporto con la moglie e la constatazione di non poter essere un buon padre. Infine, non ha più la fede nel partito a sorreggerlo nei momenti di incertezza e neanche sa più ricavare dall’esperienza militante quei codici interpretativi per fargli leggere con più serenità i cambiamenti importanti incorsi nel paese. La sua è una crisi intellettuale accelerata dalle pene del cuore, un binomio che lo spinge nelle braccia melliflue di una vacuità esistenziale che l’opprime, una condizione dell’animo da cui può cercare di uscire solo riannodando i fili dei suoi ricordi più significativi. Il viaggio verso la natia Mantova, l’incontro con diversi “compagni di viaggio”, la visita ai luoghi della sua infanzia, hanno l’effetto di avvolgerlo in un flusso della coscienza che, senza soluzione di continuità, alterna a un presente irto di incertezze, un passato neanche tanto lontano caratterizzato dalla presenza delle sue migliori speranze. Come spiega Vittorio, le stagioni a cui allude il titolo del film sono quelle in cui si aveva tutta la voglia di guardare avanti con fiducia, quelle della lotta antifascista con la quale si voleva consegnare agli italiani un paese migliore, quelle della serena laboriosità dei genitori, quella della semplicità di ideali in cui si poteva credere e investire. Quelle degli amori poco complicati perché sottratti alla complessità fenomenologica di un tempo che, inevitabilmente, trascorre e trasforma. Stagioni che non torneranno più e che sembrano avergli lasciato addosso l’insana sensazione di esserne rimasto irrimediabilmente prigioniero. Perché al loro confronto, tutto gli sembra cambiato in peggio, gli amici di un tempo non sono più gli stessi, corrosi anche loro dall’esigenza di aver dovuto sospendere a data imprecisata la fede nei valori per cui hanno combattuto. Vittorio cerca a Mantova delle sponde amiche che servano a mitigare la consistenza dei suoi dolori, ma non le trova, perché il presente della sua provincia “mitica” gli sembra allineato alla vaghezza delle sue stesse illusioni perdute. Per questo (come ci suggerisce il finale), la vista di ragazzi che ballano e cantano spensierati seguendo il ritmo di un juke box alla moda, il clima rasserenante che si respira in un’amena balera di periferia, gli appaiono come i segni di un quadro troppo dissociante rispetto alla sua fragilità emotivitá per non opporvi tutta la rabbia disordinata che conserva nell’animo.
“Le stagioni del nostro amore”, se da un lato ha il limite di essere un “tipico” prodotto del suo tempo, con i ritmi e le verbosità del caso, dall’altro lato ha il merito di aver fornito un quadro credibile della provincia italiana attraverso la delineazione certosina di un’anima in pena. Eccede in spinte melodrammatiche talvolta, epurando in un certo calligrafismo sentimentale la più interessante introspezione psicologica di un uomo in crisi. Grande prova di Enrica Maria Salerno in un buon film da riscoprire di un autore da rivalutare.
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