Regia di Florestano Vancini vedi scheda film
Liquidare Le stagioni del nostro amore come l’autoritratto inquieto dell’intellettuale Vancini è, oltre che riduttivo, ingiusto. Probabilmente il punto massimo della carriera del regista, è un film fondamentale per capire il decennio settimo del secolo breve. Attraverso il personaggio del giornalista Vittorio Borghi – appena approdato ad un quotidiano “laico” dopo anni di militanza giornalistica nel giornale di partito (l’Unità, diciamo), Vancini trova il modo per parlare di se stesso e del suo posto nel mondo, cercando di arrivare alle cause della crisi esistenziale che travolge un certo ceto della sua generazione: l’allontanamento dalla vita politica (e quindi dal comunismo) è vissuto in funzione alle dinamiche personali e come proiezione della propria inadeguatezza nella società. Dov’è finito lo spirito di un tempo, che ci mosse partigiani sulle montagne in nome della libertà e della resistenza al nazifascismo? Dove siamo finiti noi?
Accusato da destra e manca di essere troppo autoreferenziale, non ci si rende conto che ne Le stagioni del nostro amore a specchiarsi siamo (anche) noi, non solo l’autore servendosi di Borghi. Proprio al Borghi come esemplificativa figura si è poi inconsapevolmente attribuita un po’ l’avvio a tutta quella serie di intellettuali di sinistra in crisi con sé stessi e dunque col mondo. Non è un luogo comune, Vittorio Borghi, ma il perfetto concentrato umano di quei sentimenti intrinseci e di quegli sviluppi psicologici appartenenti all’ordinario (non stereotipato) intellettuale di sinistra, smarrito in una società di cui non afferra i moti, perso tra i ricordi quasi commiserevoli della stagione delle battaglie, inquieto nei riguardi del divenire della sua vita, sospeso tra voglia di normalità e bisogno di conoscere l’estremo.
E tra una conversazione coi vecchi compagni di avventure giovanili (sia un professore-assessore comunista sottilmente disperato, sia un ex comandante partigiano con l’artrite diventato guardia notturna, sia l’antica fiamma di cui, forse, è ancora innamorato) e un litigio con un post-fascista, una scorribanda in auto con l’amante giovane e un dissidio con la moglie, il suo piccolo universo borghese comincia a perdere la sua ragione di esistere. Tanto vale, sul finale, abbandonarsi ad una dimensione quasi allegorica dell’incomunicabilità che assale l’autore e il suo alter ego, ma anche la collettività inconsapevole del baratro in cui si sta, piano piano, calando.
Coscienza critica di una provincia meccanicamente annoiata, Vittorio non si accontenta di sopravvivere, ma non riesce appieno a vivere. Corpo vigoroso ed anima angosciata glieli offre Enrico Maria Salerno alla sua più bella interpretazione. Partecipazioni da segnalare di Gastone Moschin (il comandante partigiano con l'artrite, riciclatosi guardia notturna: la personificazione del tempo che scorre e dimentica), Gian Maria Volontè (il vecchio compagno comunista, professore ed assessore alle finanze, deluso dalla moglie puttana e da un'ideologia che non riesce più a capire), Jacqueline Sassard (l'amante giovane del presente, simbolica presenza di ninfetta recidiva) e Anouk Aimée (l'amante dei vecchi tempi, verso la quale Salerno non è indifferente).
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