Regia di Maria Gamboa vedi scheda film
Mateo il nemico lo ha in casa. Si chiama Walter ed è sangue del suo sangue. È lo zio materno che lo protegge e lo mantiene, lo tratta come un figlio e che lo sta iniziando al suo mestiere: quello di criminale, dedito all’usura e ad altri traffici illegali. Tocca a Mateo, e ai suoi amici coetanei, andare in giro a riscuotere gli interessi, presso i commercianti del quartiere. Questa, per loro, è la vita. L’anticipazione di un futuro prossimo, in cui saranno uomini temuti e rispettati, ricchi in mezzo ai poveri, potenti tra i deboli. In questo progetto non c’è spazio per la scuola, per la religione, per tutte le attività individuali o di gruppo che servono a coltivare i propri talenti, e a stabilire un rapporto sano e sincero con il prossimo. Mateo è insofferente allo studio, tanto che, dopo essere stato ripetutamente sospeso, rischia di essere espulso dal liceo. Gli è stata lasciata un’ultima possibilità: iniziare a frequentare le lezioni di recitazione tenute da don Alfonso, un sacerdote in prima linea nella difesa dei giovani. A Mateo si presentano due diversi modi di diventare grande: accrescere la propria responsabilità all’interno del clan, oppure intraprendere un viaggio all’interno di se stesso, scoprendo sentimenti ed emozioni del tutto sconosciuti. Ad esempio, l’amore per Ana, e la conseguente gelosia. Oppure, un gusto adolescenziale della trasgressione che non ha nulla che vedere con il denaro, e che odora vagamente di libertà. Fumare erba e discutere di letteratura, in un improvvisato convegno dentro un vagone abbandonato. Sperimentare la poesia che è, anzitutto, una forma di comunicazione indiretta, volutamente criptica, in quanto propone il dialogo come sforzo di comprensione, come invito a scardinare le barriere e a venirsi incontro. Quel linguaggio – lo stesso che don Alfonso pone alla base del suo teatro - si colloca agli antipodi rispetto al frasario, scarno, ripetitivo e convenzionale, con cui i mafiosi parlano tra loro e si fanno intendere dalle loro vittime. In certe situazioni, si parla poco e si va al sodo. Oppure si tace, mettendo in evidenza lo scontato sottinteso: un ordine, una minaccia, una condanna. Un mondo fatto di eloquenti silenzi e di sinistra compostezza deve cedere il posto ad una espressione spontanea, non codificata, che sgorga genuina dall’anima e si lascia modellare dai movimenti della fantasia. Un racconto, interpretato sul palcoscenico, può essere fatto di niente, di corpi che danzano, di spostamenti d’aria, di teli agitati ad imitazione delle onde del mare. Una realtà alternativa, impalpabile ma non per questo meno viva, si contrappone ad una concretezza che si manifesta solo tramite le durissime leggi della contrattazione, della vendetta, del terrore. Solo in quell’universo immaginario si può morire e rinascere, a comando, infinite volte. Ci si può ritrovare uniti e concordi, pur essendo inizlamente distanti, e si può così formare un nuovo tipo di famiglia, aperta e in divenire, anziché rigidamente basata su legami opprimenti e predeterminati. Il film di Maria Gamboa è un piccolo fiore che fa capolino per indicare una strada: un pensiero forse non ancora sfolgorante, ma illuminato da una calda luce crepuscolare, che, con qualche timido cenno di letterarietà, accarezza lo sguardo con la tenera persuasività delle passioni acerbe.
Questo film ha rappresentato la Colombia agli Academy Awards 2015.
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