Regia di Davide Gambino vedi scheda film
Sull’altipiano di contrada Rocca, lì dove la carne della vallata si stende sregolata fino a gettarsi nelle acque scure dell’invaso sicano, ora le stelle guardano le pietre e le pietre fissano a loro volta il firmamento.
La parabola creativa del pastore (e poeta e scultore) Lorenzo Reina, ha trovato forse compimento dopo trent’anni di ‘malavita’ e venti pieni pieni nell’architettare l’alieno. E scriviamo “forse”, perché ci pare non abbia requie la sua personale parabola artistica – anomala, affascinante nell’asfittico panorama culturale della ‘grande provincia’ isolana –, con difficoltà possa trovare composizione accettata questa sua materica ascensione verso le viscere della terra. Anzi, della Terra.
“Le pietre sono le ossa della terra, e sulle pietre è segnato il codice genetico dei miei avi e di tutta la mia famiglia”, dice, ad un certo punto del racconto filmato, il nostro pastore. Facile non sarà, quindi, che si trovi una sintesi a questo patchwork di arido, neve, muli, pecore, sangue, rocce, cani zoppi, ricordi, meraviglie, musei segreti, figurazione, carbonchio, teatro, ricotta, astrazione, divinazione. Difficile, anzi, che tutto questo non ridesti subito nuovo movimento d’intelletto, e sguardo creativo e sogno magari.
Su queste linee di narrazione (perizia=ellisse umana; opera=linearità vegetale; chimera=obliquità animale) il pastore Reina trasporta anche il giovane, promettente regista palermitano Davide Gambino a frequentare i silenzi arpeggiati dal rumore di ciò che è stato (una pre-istoria fatta di giovinezza e di conflitti, ma anche di accecate rivelazioni), così come a lasciarsi abbandonato nel rimbombo dell’idea di un artista (che è un avverso tempo a venire, stracolmo solo di quesiti). Nel suo aggredire il visto per accontentarsi del percepito. E Reina e Gambino, pendolo e filo della misurazione organica di questo mondo tanto arcaico quanto lo può essere un prossimo pianeta solare da svelare nel buio del certo, rasentano per poco meno di un’ora il tragitto perfetto.
Ho chiesto al giovane regista, fresco di una serie di cose che lasciano ben sperare per lui e per noi (il premio “Young Italian Filmmaker 2013” dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, un misterioso lavoro per conto della Fondazione Benetton in Kazakhstan, dei progetti di fiction per alcuni canali satellitari della Rai), quanto si possa dire che il suo cinema del reale sia una diversa misura per traguardare territori poco affollati in Italia, dove già il genio epicureo di un Michelangelo Frammartino ha espanso i globuli rossi della nostra curiosità aerea. Come sia dicibile, senza entrare in rotta di collisione con il naturale egotismo di ogni produttore d’arte visiva, che mentre l’autore di “Le quattro volte” e – soprattutto – di “Alberi” affida allo spirito romito del paesaggio il compito di ‘attraversare’ i tre livelli dell’eco-narrazione (vedi più sopra, non mi far perdere il filo…), qui Gambino inizia a scalpellare un’ossatura litica del mondo emerso che, al contrario, ‘penetra’ dentro lo spettatore come una punta di selce. Il rito collettivo (“Alberi”), il vortice rigenerante (“Le quattro volte”) lì; l’autocompiacersi di una forza umana singola che plasma e che divora il ritmo stesso del racconto del suo nominare, qui. E Gambino mi ha confessato che, quand’era tra i banchi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, ha seguito con molto interesse le lezioni del regista milanese. Ma che ogni percorso, anche il suo quindi, è da leggere in assoluta indipendenza e con uno spirito critico che lo preservi da facili e banali similitudini. Più che giusto, ripensandoci.
Ciò che ci resta è un ‘film sul reale’ (meglio che dire un ‘documentario’), che partendo un po’ in sordina, la prima mezz’ora di sguardo a ritroso e all’intorno, incredibilmente si trova a fissare un riflesso concavo di segreta bellezza e di aspra umanità. Qualcosa che rapisce senza consolazione (certe inquadrature fisse che sanno di Oriente e di Grecia, di Atlantide e Lemuria, di Sicania, di Erewhon forse), e ci lascia immobili non appena la luce svanisce e corre il panno nero dei titoli. In silenzio ci lascia. A rimestare su frasi dette alla rinfusa nel film. “Cos’è l’arte se non una sorta di follia?”, e questa è una frase fatta. “Io cerco, creando, di arrivare al midollo di me stesso!”, e questa – invece – è una frase tutta ancora da fare. Insomma, come direbbe quel gran cosmonauta di mck: la prima parte sono ***, la seconda ***** e facendo la media esattamente son **** le stelle…
Una pietra d’angolo davvero notevole.
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