Regia di Zachary Donohue vedi scheda film
La realtà si è riempita di occhi, e ogni cosa sembra diventata immagine e riproduzione. Da qualsiasi punto della realtà un occhio può starci osservando anche in questo momento, ed essere oltretutto connesso con non si sa quale punto del pianeta, pronto a soddisfare le manie voyeuristiche di qualche pervertito. L’Età dell’Ansia novecentesca si è trasformata in un’Età del Terrore, in cui ogni singolo frammento di realtà destrutturata gode di un proprio punto di vista e, a momenti, di una propria autonomia. L’idea stessa di creare un intero film a partire dalla riproduzione di ciò che appare sullo schermo (in cui è quasi sempre presente anche colui che guarda lo schermo stesso, secondo un vero e proprio processo a specchio che poi è il normale funzionamento della webcam) rende The Den uno dei POV più estremi e geniali mai realizzati, probabilmente anche uno dei migliori, pur nella sua atipicità. È infatti il primo mockumentary che coerentemente nega l’importanza della sala cinematografica e si configura, ancora più coerentemente, con la definizione di un computer normale, tant’è che vederlo al proprio computer è una sorta di botta e risposta di realtà e finzione tale che è difficile che qualcuno non rimanga imbrigliato. Lo spettatore è messo sotto scacco dall’occhio “annullato” di Donohue, regista esordiente nel lungometraggio che rivela un’attenzione e una sagacia davvero invidiabili, quasi una lezione di cinema POV postmoderno.
Visto al computer, infatti, The Den provoca un coinvolgimento che il POV ha sempre ricercato con barbare pretese di realtà (telecamere in eccessivo movimento, lasciare vedere poco o nulla, inquietare con i silenzi), raramente (e che eccezioni!) riuscendo davvero a colpire. Qui la spinta è, come al solito, vedere cosa di reale ci viene mostrato, e il pensiero che sovviene immediatamente è la domanda (che – ormai si pensa – è banale, ma non lo è realmente) se veramente stiamo guardando la realtà o no. Oltre la finzione, il computer e Internet sono in se e per se riproduzioni del reale, e dunque The Den si barcamena fra queste riproduzioni dando della realtà una visione distorta, seppur veritiera. La simulazione mockumentarystica dell’oggettività qui viene portata a livelli elevatissimi, quasi indimenticabili, perché ci viene sottoposta l’osservazione di qualche cosa ormai diventata quotidiana, e che volenti o nolenti occupa le nostre vite senza possibilità di liberarcene. Ed è veramente agghiacciante l’idea che a partire dall’immagine si possa davvero creare un’arma, nel film arma “concreta” ma spesso metafora per intendere la terribilità del senso della vista. Le controindicazioni dell’uso del web e dell’incontro – virtuale – con gli sconosciuti si trasmuta presto nelle controindicazioni dell’immagine stessa, e di come essa cominci a perdere le sue fattezze, ovvero di “figura che riproduce il reale”, e cominci ad assumere caratteri autonomi ed indipendenti. Occhi senza volto che sono poi, chiaramente, quelli delle oscure presenze che tiranneggiano sul computer della protagonista, acuendo il sospetto dello (so)spettatore e spingendolo a elaborare opinioni azzardate come nel miglior giallo, mentre vengono rispettati i normali stilemi orrorifici con shock così ben assestati da rasentare la genialità (il primo spezzone violento arriva come può arrivare la sequenza splatter di uno dei tanti film di Haneke). E mentre la violenza spezza la monotonia di immagini sempre uguali, ci accorgiamo di come stiamo diventando vero e proprio flusso virtuale perdendo sempre di più le nostre fattezze umane. Con Alone with Her e Megan is missing, uno dei POV più originali mai realizzati, senza l’ausilio necessario di telecamere a mano ma con telecamere fisse nascoste o webcam. L’immagine spersonalizzata che diviene gradualmente “posseduta diabolicamente” da un occhio umano. E in questo senso, però distanziando il più possibile il buon gusto (e inquietando nella maniera più brutale ma anche sleale), le forzature di Murder Collection vol. 1 di Fred Vogel arrivano assolutamente pertinenti. E quello, pur nella sua mediocrità, non presentando esseri umani emotivamente caratterizzati, raggiunge (senza accorgersene, perché si ferma al sensazionalismo), vette di inaudito nichilismo. In The Den, all’interno dei canoni del buon vecchio pessimismo orrorifico, c’è anche l’immagine (fittizia!) di un mondo di affetti volto alla scomparsa. E in questo caso l’estensione di senso degli antagonisti, che potrebbero essere l’incarnazione stessa di quegli occhi malefici che ci osservano, potrebbe essere la vera chiave di lettura di tutto il film. Per appassionati e non.
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