Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Bastano un titolo dal sapore antico, bei costumi d'epoca sontuosi e pertinenti, e una adeguata ambientazione “tardo-medievale” tutta vedute bucoliche, rioni antichi e case coloniche, muri in pietra e tratturi tra colline amene e dolci per ritenersi sufficientemente e correttamente “ambientati” per un film “di costume” che si rispetti? Forse si, se almeno ci trovassimo di nuovo nell'esilarante spassosissimo e farsesco viaggio nel tempo di Troisi e Benigni di trent'anni esatti fa; molto meno se mettiamo in mezzo, con una certa serietà e rigore d'intenti, l'opera più nota di Boccaccio, tentandone una pur libera trasposizione di alcuni episodi del suo Decameron.
Ma considerato che le intenzioni dei due stimati fratelli registi sono certo ben altre rispetto alle prime citate, ed anzi coincidono con le seconde, il risultato dell'ultima opera dei Taviani appare, un po' spiace ammetterlo, piuttosto discontinuo, frammentario, magari ambizioso, considerato anche il cast coinvolto; certamente un po' succube di una visione ammodernata e inevitabilmente risibile di un passato storico il cui adattamento e la cui rappresentazione ci derivano da tanta, troppa menzogna ed appiattimento televisivo; dalle approssimazioni da (ex) tubo catodico, che ci fanno rendere plausibili, accettabili, o almeno sopportabili certe capigliature di ragazzine phonatissime e mesciate, i loro discorsi che sembrano fuoriusciti da un talent della De Filippi, certe semplificazioni (tipo: che fame facciamo tutti insieme ed in coro il pane!) inaudite o addirittura sconsiderate.
Se infatti le cinque (ho contato bene?) novelle che i ragazzi rifugiati in collina per sopravvivere al contagio pestilenziale di una Firenze allo stremo, si raccontano l'un l'altro per passare il tempo senza annoiarsi (beati loro!!), sono, come è plausibile in questi casi di pluralità di narrazione, piuttosto disomogenee a titolo di riuscita ed interesse provocato, quello che proprio non va bene e rende stucchevole la vicenda dopo un innegabilmente interessante avvio tra le strade devastate dalla morte nel capoluogo toscano, sono le introduzioni dei ragazzi che ne annunciano ed esplicitano la narrazione. Preamboli a cura di un manipolo di fuggiaschi che trovano magicamente la loro America, cioè la pacchia e il bengodi (altro che semplice salvezza!) in collina (chissà come mai solo loro ci pensano e gli altri stolti restano in città a crepare come sotto gli effetti di una piaga biblica) e trasformano la casa colonica in una sorta di impressionante sconsiderato Grande Fratello d'altri tempi che tuttavia ne ricalca sguaiatamente atteggiamenti e modi di comportarsi nel più scioccante stile televisivo che va per la maggiore ai nostri giorni.
A poco serve la bravura di attori come Kim Rossi Stuart, qui coinvolto a fare il matto credulone di un episodio divertente ma irrisolto, o il volto dolente di Jasmine Trinca nell'inutile episodio finale del falco, per citarne solo due.
Qualcosa in più vale il breve grottesco episodio (con Cortellesi e Crescentini) delle monache che si fanno furbe, e come tali si predispongono alla tolleranza delle soddisfazioni materiali e alla saggezza scaltra del quieto vivere, lasciando spazio nell'intimità delle rispettive celle alla soddisfazione degli inevitabili sacrosanti piaceri terreni; mentre il lato drammatico delle storie con Smutniak e Riondino amanti crudelmente separati nella vita o la cronaca concitata di una passione con rivincita tra Scamarcio e Puccini, appare deficitario e schiavo di narrazioni più leziose ed insignificanti che coinvolgenti.
Insomma dopo Pasolini - che. con il suo adattamento sfrontato, oltraggioso, ma caldo, pieno di vita, di alcune più celebri e sanguigne novelle del Decameron, diede vita al primo folgorante e passionale capitolo della sua “Trilogia della vita” (seguito poco dopo da I racconti di Canterbury e da Il fiore delle mille ed una notte) - riportare sullo schermo anche solo qualche sprazzo od umore boccaccesco, pareva già dall'inizio un'impresa un po' ardua ed in salita, forse addirittura impraticabile.
Il risultato calligrafico ed inutilmente bucolico, di superficie dei due altrove pur lodevoli fratelli registi toscani, ne conferma l'ideale impossibilità, soprattutto laddove ci si attiene e ci si accontenta di ricorrere ad un adattamento esteriore e inevitabilmente piatto e convenzionale di un'opera che invece è nata come specchio ironico e arguto di un'epoca storica ben precisa e circoscritta, che non merita di essere qui involgarita ed ammodernata, dunque imbastardita, da sconsiderate considerazioni astratte e fuori luogo, per opera (stolta) di un manipolo di ragazzini viziati e francamente debosciati.
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