Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
È un Boccaccio poco boccaccesco quello immaginato dai Taviani, se intendiamo l’aggettivo per ciò che è diventato nei secoli. Luttuoso più che licenzioso. Teatrale nella messinscena. Percorso da toni e accenti che a tratti fanno pensare all’opera (buffa e mélo) più che alla novella. Cinque storie scelte tra le cento del Decamerone, dentro la cornice filologica dei dieci narratori e della peste del 1348 a Firenze. In realtà tutti i personaggi vivono in una dimensione senza tempo, quella propria dell’immaginazione e dell’amore. Anche nel macabro prologo sembra di stare in ogni luogo ed epoca in cui una peste abbia devastato i corpi e gli animi, uccidendo la voglia di vivere. Spazi “metafisici”, ambienti fiabeschi (tra la Toscana e il Lazio), movimenti coreografici dentro il quadro, campi medi e lunghi “affrescati”, una regia che fa del modernismo retrò. Il risultato più che “maraviglioso” è straniante. Lo sarebbe di più - e forse dovrebbe esserlo - se non fosse per la parata di interpreti (troppo) noti, con le loro performance troppo personali e a volte stonate. Si indicano la bellezza, il desiderio, la passione come rimedi alla peste. Si evoca il passaggio tra il Medioevo ieratico e la nascita dell’individuo, l’umanesimo - soprattutto la nascita della donna, omaggiata nel suo diritto alla scelta, nel coraggio e la nobiltà dei sentimenti. Ma rimane più che altro l’intreccio irredimibile di amore e morte, oltre al senso di incompiutezza (inevitabile?) dell’operazione.
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