Regia di Francesco Munzi vedi scheda film
Bel film e utile a vedersi. Sul disastro morale interiore, fatto di ansia e infelicità, che comporta la scelta di vivere da criminali: i soldi e il potere, che ne derivano, non rendono meno fallimentare tale scelta, per lo stesso che la compie. Il registro drammatico è dosato benissimo, e culmina in un finale stupendo e sorprendente.
L’unica pecca è la sordina: sembra che accada poco, almeno nella prima metà del film. Ma tale sordina è molto calabrese, e azzeccata, trattandosi di un verosimile fresco della ‘ndrangheta (di cui questa forse è la miglior trattazione cinematografica): la comunicazione è scarna in tutto il film, come del resto lo è nella realtà di quella regione, dove i fatti accadono con la volontà che abbiano il minor contorno possibile di parole.
Proprio tale miseria comunicativa, intessuta di ignoranza, è spia di una più profonda miseria umana, per la quale questo film di Munzi aggiunge il merito della denuncia. C’è un realismo meraviglioso, anche nel ritrarre l’emotività primordiale, quasi primitiva, che contraddistingue i personaggi, molto più nel male che nel bene. Logiche tribali che sono le stesse che presiedono allo strapotere delle organizzazioni criminali, che il romanzo di Criaco (soggetto del film) vuole far conoscere meglio nei suoi lati più inaccettabili, per qualunque società sana. E che invece in tutto il Sud Italia la fa da padrona (e si è esteso bene anche altrove).
Molto bene è resa la logica di bilanciamento fra clan criminali, come se non ci fosse scelta: per tutti è obbligatorio schierarsi o con una banda di criminali o con un’altra (a maggior ragione per chi dentro un clan ci è nato: non può mai tirarsi indietro, e deve maledire i pur grandi vantaggi economici che tale appartenenza gli ha procurato). Didascalica è la figura del giovane amico che tradisce, e quella di una famiglia che si palleggia in attesa degli eventi, proprio aspettando i futuri equilibri criminali, che poi sono gli unici equilibri che lì contano.
Splendida la fotografia, specie sui paesaggi, ben accompagnata dalla musica: una natura bella ma deturpata, da case diroccate o abusive, un vero colpo all’occhio e al cuore. A sottolineare un isolamento umano insuperabile: la solitudine è una delle cifre del film, come mostrano i legami familiari, più legati ad apparenza e tradizione che non ad aspetti virtuosi.
Ottimo il montaggio, come la recitazione collettiva. Citazione di merito per Stefano Priolo, nei panni del sicario calvo, semplice ed efficiente: sembrerebbe quasi rispettabile, nella sua normalità di lavoratore serio. Il problema è che, come tutti lì, è un affidabile lavoratore del crimine. Un crimine che è normalità, per cui non se ne nota l’anomalia. Chiaro in tal senso (per la convinta vocazione antilegalitaria) è l’odio dei familiari del clan verso le forze dell’ordine, e lo stato in generale: in particolare delle donne, le quali qui hanno un ruolo umiliante, talmente sono sottomesse, del tutto realistico storicamente , purtroppo.
E film come questi vogliono far capire come tutto questo non deve più essere normalità, e nemmeno eccezione.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta