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Anime nere

Regia di Francesco Munzi vedi scheda film

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La recensione su Anime nere

di Peppe Comune
8 stelle

Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane) sono tre fratelli calabresi. I primi due vivono a Milano facendo affari d'oro attraverso il traffico internazionale di droga l'uno e il riciclaggio di denaro sporco nel fiorente campo immobiliare l'altro. Il terzo, il più grande dei fratelli, è l'unico che se n'è rimasto nel paese d'origine sull'Aspromonte. Leo (Giuseppe Fumo), il figlio di Luciano, non vuole saperne di rimanere a fare il contadino a vita, mal sopporta che il padre se ne "sta tutti i giorni insieme alle capre" e guarda con devozione alle imprese di zio Luigi, di cui vorrebbe seguire le orme. Leo è un ragazzo alquanto inquieto e dei colpi di fucile sparati contro la saracinesca di un bar, bastano a riaccendere vecchie rugini con un clan rivale. É quanto basta perchè tutti si ritornino in paese per cercare il modo migliore per affrontare la situazione. Ma la morte di uno dei fratelli innesca delle conseguenze tragiche ed inaspettate per chiunque. 

 

scena

Anime nere (2014): scena

 

Ambientato in una Calabria aspra e piovigginosa, "Anime nere" di Francesco Munzi (liberamente ispirato al romanzo omonimo di Gioacchino Criaco) è un film che parla di 'Ndrangheta mostrandoci alcuni dei suoi aspetti più tipici : ci sono i suoi "figli" ben inseriti negl'ingranaggi economici del paese, intenti a fare soldi nel nord Italia attraverso il "classico" iter criminale traffico di droga, riciclaggio del denaro sporco, speculazione edilizia ; c'è la famiglia giù in Calabria a rappresentare quell'inappellabile cordone ombelicale da cui tutto ha origine e verso cui tutto ritorna ; ci sono le 'Ndrine con le loro strategie di potenza ; ci sono la calma tragica degli uomini e l'attendismo silente delle donne ; ci sono i morti ammazzati che esigono una vendetta da compiersi necessariamente. Eppure, "Anime nere" non è un "criminal movie" nel senso pieno del termine, quanto piuttosto un dramma familiare più incline ad analizzare le vicende di uomini avvinti da un destino tragico che a raccontarci le gesta di malavitosi nel pieno esercizio delle loro funzioni criminali. Il film ha un impronta chiaramente antropologica e Francesco Munzi si mostra particolarmente interessato a mettere in bella evidenza quei retaggi culturali che starebbero alla radice di determinati comportamenti. La netta contrapposizione tra l'immane potere che le famiglie 'ndranghetiste sono capaci di esercitare sull'intero territorio nazionale e l'ambiente rurale in cui rimangono a vivere, esemplificato a dovere con la presenza insistita di macchine lussuose che si aggirano lungo strade sterrate prive d'illuminazione, serve appunto allo scopo di generare una linearità culturale tra l'economia criminale che gestiscono con ottimi profitti in giro per il mondo e il legame di tipo filiale con la terra d'origine che si configura come un debito di riconoscenza che non si estinguerà mai. Incentrato sulla figura di tre fratelli dalle personalità tra loro contrastanti, la trama del film assume un andamento da tragedia greca, facendo emergere spigolosità caratteriali altrimenti sopite, quando Leo si assume l'onere di dover far rispettare l'onore della famiglia e si spinge dentro quel solco criminale già abbondantemente tracciato. É a questo punto che l'irrompere della violenza si intreccia con le particolarità esistenziali dei tre fratelli, che il diverso modo che ha ognuno di rapportarsi  con il milieu criminale di appartenenza fa capolino davanti alla tragica elaborazione di un lutto. La morte di uno dei fratelli spinge tutti ad interrogarsi sul cosa fare per arrivare a capo di una questione che non può essere lasciata aperta. Questo fatto, che apre voragini esistenziali in chiunque ne sia coinvolto, ma anche la difesa del valore sacro della famiglia e i moventi culturali che starebbero alla base delle azioni che si compiono, sono elementi che fanno somigliare "Anime nere" a "Fratelli", il capolavoro di Abel Ferrara (e credo ci siano gli elementi per ricordare anche "Luna rossa", il bel film di Antonio Capuano). Così come il ruolo attribuito alle donne in entrambi i film, dolenti e piangenti, figure riflesse in un mondo dominato dai maschi.

Ho fatto prima riferimento all'impronta antropoligica che aleggia lungo tutto il film, sensazione che si evince soprattutto in sequenze chiaramente tipizzate in tal senso, come quella che ritrae Luciano raccogliere della polvere da una cappella votiva e mischiarla con dell'acqua per farne un medicamento (pratica già vista anche nel bellissimo "Le quattro volte" di Michelangelo Frammartino, sempre ambientato in Calabria), o le altre che insistono sulla natura aspra, sui fabbricati disadorni, sulle capre sempre pronte al sacrificio "rituale", sulle litanie predicanti di donne perennemente in lutto, emblema di un fatalismo religioso praticato per sancire la propria chiusura da qualsiasi mondo a loro esterno. Ma è anche il modo in cui il film tratta il tema della violenza a far emergere una chiara traccia antropologica. Perchè quella rappresentata da Francesco Munzi è una violenza atavica, iscritta nel pieghe dell'esistenza del mondo, nella natura dell'uomo in rapporto con l'ambiente che lo circonda, disciplinata da una ritualità del comportamento che nasce antica. Nel suo andamento circolare, l'uomo è come sospinto lungo una strada incidentata dove sono delle forze superiori a tracciare invariabilmente il percorso, ad innescare un meccanismo di morte che esige sempre un'altra vittima per potersi conservare in eterno. Una violenza che tinge le anime di nero perchè non conosce redenzione (ecco un'altro aspetto tipico della poetica di Abel Ferrara).

Bello ed incisivo è il ruolo della madre dei tre fratelli, mamma Rosa (Aurora Quattrocchi), una figura di donna discreta e di mamma addolorata, greve e rassicurante, carismatica e sottomessa insieme (forte è la sequenza in cui la si vede sputare in terra con ostentato disprezzo al passaggio di alcuni carabinieri). Ritengo, invece, che non sia proprio riuscito il ruolo della moglie di Rocco (non l'interpretazione però, affidata alla brava Barbara Bobulova), il quale, se da un lato serve allo scopo di far emergere l'emancipazione borghese del marito, ad agire come elemento di contrasto palese rispetto alla monotonie (ambientali, cromatiche, esperenziali) calabresi, dall'altro lato appare una figura poco intonata con tutto il resto della storia. Difetto comunque trascurabile che non toglie nulla alla bontà di un opera che si è dimostrata abile nello sviare i tranelli di una facile, quanto gratuita, spettacolarizzazione degli stilemi malavitosi. Facendo parlare gli uomini non pù di quando si mostra di dare importanza alla fissità dei luoghi, "Anime nere" induce a far riflettere sull'inestricabile rapporto tra passato, presente e futuro. Un grande film contemporaneo. 

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