Regia di Francesco Munzi vedi scheda film
Storia di tre fratelli, Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane). I primi due emigrati al nord hanno trovato fortuna nel traffico di droga e nell’edilizia che ripulisce i soldi dei traffici illeciti. Luciano al paese tenta di vivere una vita normale, tenendosi fuori dalle logiche criminali e cerca di salvare il figlio dalla tentazione di seguire le orme degli zii. Ma non c’è speranza. Il respiro tragico che sublima dalla terra e inquina i cuori dei suoi abitanti condurrà i tre fratelli una volta riuniti, alla catastrofe.
Tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco, Anime Nere, diretto da Francesco Munzi si rivela essere il miglior film italiano dell’anno, già apprezzato al London Film Festival e in concorso alla 71° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia dove avrebbe meritato maggior considerazione. Una storia di malavita quotidiana ambientata nell’Aspromonte dove le facce e i luoghi si sostituiscono alla retorica e alla denuncia, le immagini prendono il sopravvento sulle spiegazioni e le didascalie. Il genere si impasta alla verità senza abbracciare alcun cliché.
Sguardi di tre quarti su giacche di pelle nera. Sorrisi taglienti su bocche affilate. Un idioma che è uno scudo verso l’esterno. Un codice che rinchiude in una cassaforte secolare i segreti di una società arcaica inattaccabile dalla modernità. Un ponte di diverse centinaia di chilometri e di anni divide Milano, sede del business, da un grumo di umanità ancorato su un monte come superstite di un naufragio di un’arca paleozoica che con l’isolamento non ha mai conosciuto l’evoluzione.
Le anime nere si muovono come fantasmi nel degrado di una urbanità dimenticata dal tempo. Il senso del bello rimosso e sepolto tra il vecchio paese arroccato su un monte e il nuovo che ha smesso di avanzare, scheletrico, informe. Si avverte la fine, un grave senso di morte che scivola rettile sui muri scrostati, denudati, nelle strade sconnesse tra i ciuffi d’erba malati. Le anime nere combattono tra loro per accaparrarsi quel nulla che giustifica una vita, in assenza d’altro. Un nulla sospeso tra macerie umane vestite di pelle nera, dagli sguardi stupidi e feroci, i suoni gutturali che esprimono il rifiuto per qualsiasi cultura. Auto potenti e lucidissime fendono il fango tra le macerie, feticci di un potere distruttivo e fine a se stesso. Usanze arcaiche convivono e si scontrano con una modernità importata dalle metropoli, atteggiamenti e pose che vanno oltre l’immaginario collettivo cinematografico dei picciotti italo americani che hanno ispirato a loro volta le tendenze criminali descritte in Gomorra, per esempio. Qui siamo ancora più indietro, alle radici del pensiero mafioso che ancora non ha nome. Mafia, camorra, ‘ndrangheta, o “sistema” come diceva Saviano, nessuno di questi termini ha valenza per ciò che Munzi mostra, termini che valgono per i tiggì, per gli articoli dei giornali o per sceneggiatori di mezza tacca. E’ un modo di vita – e di morte - vissuto nella più disarmante consapevolezza. Che senso ha definirla? David Foster Wallace durante il suo memorabile discorso d’apertura per la consegna delle lauree al Kenyon College nel 2005 raccontò una storiella: ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”
Questa è l’acqua (la risposta divenne poi il titolo della trascrizione del discorso una volta pubblicato) nella quale annaspano le non vite di queste figure nere, istruite nell’odiarsi nei secoli dei secoli. Per un predominio su un nulla grottesco come il cucuzzolo di un monte dove i padrini vivono tra le capre, l’omertà è l’unica legge e le forze dell’ordine vivono nel costante disprezzo di una comunità che mai ha avuto un vero e proprio senso dello Stato, isolata nelle proprie faide, nei propri matrimoni combinati, nei simboli svuotati di fede, nelle divise istituzionali percepite come invasori di un mondo tanto privato quanto assurdo.
Luciano è un pesce fuor d’acqua. L’unico che si accorge della realtà demente nella quale le vite annegano. Perché il succo del discorso di DFW riguardo la storia dei pesci è che spesso le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare. E in Aspromonte meno si parla, meglio è.
Munzi dedica moltissimo del film a questi aspetti, “all’acqua” che è generatore di queste vite, poiché il contesto sociale inaridisce quelle esistenze che a loro volta cesellano e scarnificano il paesaggio a propria immagine e somiglianza. L’impressione che deriva dal film è la totale assenza di speranza che aleggia tra i personaggi. Un’ accettazione referente delle regole tribali che scandiscono la vita. Questo è compito dei personaggi femminili, le custodi dei ritmi e delle usanze che regolano la vita della famiglia. Erroneamente intesa come passiva e sottomessa alla cultura del potere maschile, la femmina è invece il puntello di quel potere. Omertosa e lunare, la donna scivola tra le ombre perfettamente a proprio agio, nello stesso tempo custode e custodita dallo scrigno nero della società malavitosa.
“Io non sono come voi”. E’ forse la frase più incisiva dell’intero film. La dice Valeria (Barbara Bobulova) la moglie milanese di Rocco giunta al paesello dei dannati (qui i ragazzi non sono biondi ma hanno lo stesso sguardo spento e disperato) per il funerale del cognato morto sparato. Dichiarazione disperata e illuminante come un flash che per un attimo mostra l’immostrabile per poi svanire come un sogno spento dal marito, che in quel VOI, quelle tre lettere, legge un’offensiva distanza di cultura, di legalità, di usanze e leggi non scritte che separano il mondo reale, quello visibile e celebrato del nord, da quello incancrenito nell’odio tribale del sud. L’ambiguità che deriva da quella frase vomitata nella penombra ossessiva di una camera da letto che assomiglia ad una camera ardente in cui tutti sono già cadaveri, anche se vivi, è che i due mondi si divorano l’un l’altro. Rigenerandosi nei rispettivi pasti come in un infinito tormento biblico.
Francesco Munzi gira un film d’autore rigorosamente recitato in calabrese e sottotitolato, sospeso in una realtà nascosta accarezzando il cinema di genere che è fatto di facce e corpi, azione e dialoghi fulminanti. Il ritmo è quello dilatato e sornione dei suoi stessi interpreti, ambigui, dai modi affettati in una controllata tensione violenta, imbrigliata negli sguardi carichi d’odio.
Cupo e viscerale, bellissimo film, tra le famiglie mafiose letterarie e un po’ barocche di Coppola e il realismo giornalistico del Saviano letterario tradotto in capolavoro da Garrone, le Anime Nere di Francesco Munzi ci stanno benissimo, fungono da cerniera tra due altissimi sguardi puntati su una realtà percepita sempre meno come criminale, sfumata nella quotidianità, annegata in “quell’acqua” nella quale bene o male, un po’ tutti sguazziamo.
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