Regia di Aharon Keshales, Navot Papushado vedi scheda film
Un fratello e una sorella fuggiti di casa stanno attraversando una riserva naturale quando lei cade in una fossa, vittima della trappola tesa da uno psicopatico. Mentre un guardiacaccia con pastore tedesco al seguito li cerca distrattamente, il ragazzo raggiunge la strada per chiedere aiuto, finendo però investito dall'automobile su cui viaggiano due coppie miste di giovani tennisti. Sanguinante ma cosciente, spiega loro la fretta per la quale preferisce soccorrere la sorella prima di farsi curare, e convince i due uomini a seguirlo, mentre le due donne restano sul posto e chiamano la polizia. Ma di lì a poco la situazione degenera definitivamente.
Fatta una rapida ricognizione dell'ambientazione, della tipologia dei personaggi e del genere di appartenenza, basta veramente poco per tirare rapidamente le somme e bollare, prima ancora di vederlo, Rabies come l'ennesimo slasher con assassini feroci e vittime stupide in cui l'unico motivo di presa sul pubblico è l'attesa delle risposte alle solite domande sul chi e sul come degli ammazzamenti successivi. Ma farlo sarebbe un errore.
Disinteressati a pestare il piede sul pedale del gore in maniera gratuita, i due registi e sceneggiatori esordienti sulla lunga distanza Aharon Keshales e Navot Papushado (rispettivamente un critico cinematografico e insegnante all'Università di Tel Aviv ed un suo allievo), mostrano la dovuta attenzione alla scrittura, preoccupandosi in prima istanza di fornire una definizione chiara delle personalità di ciascuno dei caratteri coinvolti al fine di conferire alla storia la giusta tensione drammatica, ma al tempo stesso divertendosi a creare aspettative per poi sorprendere, il tutto lasciando aleggiare sui dialoghi e sugli eventi in generale un senso dell'umorismo fatalista e tetramente grottesco.
Quello che fa di Rabies (in originale Kalevet, che vuol dire "Rabbia") un film da vedere, al di là della curiosità che può ingenerare il suo essere il primo horror nella storia del cinema israeliano, è la sua capacità di prendere spunto dagli stereotipi del genere per sfruttarli in maniera, se non sempre originale, di certo singolare. La solita ragazza bella ma svampita, il classico poliziotto sbruffone, lo scopatore e lo sfigato, sono inseriti nel contesto di uno slasher non slasher che cerca di tenersi il più possibile alla larga da prevedibilità o schematismi, al punto che lo psicopatico di turno non ammazza nessuno (animali a parte) e si limita a giacere la maggior parte del tempo svenuto in un angolo del bosco intanto che altrove si consuma la mattanza.
E mentre costui, che di fatto è il pazzo, il "cattivo" designato, è mantenuto ai margini del racconto, l'attenzione resta ben alta sugli altri, i quali - eccezion fatta per il guardiacaccia, innamorato della propria donna e del proprio cane, che trasuda umanità da tutti i pori ma ottiene tutt'altro che la riconoscenza che meriterebbe - sono tutti portatori teoricamente sani di una rabbia repressa che non fa prigionieri, e che può essere facilmente letta come allegoria della condizione in cui versa il tessuto sociale dello stato di Israele, ridotto a un campo minato, assuefatto alla violenza e gravemente provato da una condizione di guerra civile permanente. Allora il poliziotto che non sopporta il padre né le donne e l'altro che cerca di riallacciare il rapporto logoro con la propria, i fratelli legati tra loro da un rapporto incestuoso, e i quattro tennisti uniti e al tempo stesso divisi dalle pulsioni che una di loro suscita sul resto del gruppo, altro non sono che una manciata di individui che, incrociando le strade in una situazione di assoluta emergenza, scelgono di lasciarsi guidare dagli istinti più bassi del proprio lato oscuro, divenendo più cattivi dei "cattivi" e precipitando ciascuno sul proprio privatissimo abisso.
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