Regia di John Huston vedi scheda film
La sensibilità sottopelle di Marilyn, la sua malinconia trasformata in tristezza, in alcuni sguardi, a volte pieni di amore, altre rivolti chissà dove. La quasi tangibile necessità di una figura maschile, da cui essere capita e da cui essere amata. Il suo mondo interiore racchiuso in un corpo e in una figura che gli uomini difficilmente riescono ad oltrepassare, come fosse quella la vera frontiera, per arrivare a ciò che si cela al suo interno. In un certo modo John Houston ce ne rende la fulgida essenza, che finisce per permeare l’intero film, anche se in un paio di inquadrature anche lui si perde sul fondoschiena di Marilyn, fasciato da jeans attillati, mentre sobbalza su un cavallo o in un suo movimento ipnotico mentre dondola quasi impazzito all’interno di un bar. La sessualità è l’evidenza, la femminilità il mistero. Intorno a lei girano tre figure maschili. Clark Gable, vecchio cowboy, dal fascino maturo e rassicurante. Eli Walach, meccanico e amico di Clark, il primo a mettere gli occhi su Marylin e a baciarla, ma anche colui che si creerà più illusioni. E Montgomery Cliff, giovane cowboy, che partecipa ai rodeo e segue gli altri per andare a domare e catturare un gruppo di mustang selvaggi. Le alchimie fra i quattro sono meravigliose, il desiderio di una donna e l’amicizia virile, la continua sottile seduzione e le psicologie che si svelano, gli sguardi, i volti, gli improvvisi momenti di allegria, soprattutto se c’è dell’alcol in giro e poi attimi di abbandono, quando si guarda la vita e non si sa più da che parte andare.
Houston immerge nel calore del Nevada una storia scritta da Arthur Miller e i riflessi della rottura del suo rapporto con la Monroe invadono anche la pellicola, storia di cowboy e di personaggi ai bordi della società, nella cui forma non riescono a inserirsi, ammaliati dalla dolcezza di una donna che non sopporta la violenza (fra uomini o sugli animali), che sente il dolore altrui come fosse il proprio e non sapendo bene come proteggersi rischia di annullarsi nell’altro, senza difesa, se non quella di una fulminea esplosione di ira repressa e impotenza, ripresa da Houston in campo lungo, con Mailyn che si muove e urla, minuscola figura nella bianca vastità del deserto.
Poi i primi piani a spiare nell’anima di personaggi e attori (per la Monroe e Gable, questo sarà l’ultimo film), a rimandarcene emozioni e vibrazioni. La tensione sembra esplodere nelle sequenze finali, durante la caccia ai cavalli. Questo scontro archetipico tra uomo e natura, tra la tecnologia meccanica dell’epoca, il motore (dell’aereo, del furgoncino) e i muscoli del cavallo, con Houston che sfrutta questa velocità, questo movimento costruito dall’inseguimento, per dare ritmo alle immagini. Il lavoro degli uomini viene quindi minato dalla resistenza della donna, dalla sua intima sofferenza nel vedere il modo in cui gli animali vengono catturati e legati. Nell’ultima sfida, Gable si ritrova da solo contro lo stallone del gruppo di mustang e il duello sarà finalmente equo, la tensione si scioglierà solo nel momento in cui l’istinto femminile avrà la meglio su quello maschile, allegoria western per un rapporto sessuale che non verrà mai consumato, se non negli intenti che l'energia del desiderio farà accumulare.
The Misfits è un melodramma intimo e suadente, intriso in maniera indelebile dalla personalità dei suoi protagonisti, un western esistenzialista, in cui l’interno diventa paesaggio e il deserto un luogo dell’anima in cui perdersi o ritrovarsi.
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