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Gli spostati

Regia di John Huston vedi scheda film

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La recensione su Gli spostati

di OGM
10 stelle

Il far west di Arthur Miller è l’indistinto orizzonte dei desideri, la landa sconfinata dove ogni cosa sembra possibile, per il semplice fatto che tutto vi appare indefinito. I traguardi personali si sostituiscono alle leggi collettive, l’impulsività dell’istinto alla costanza dell’impegno a lungo termine.  È  l’altrove nel quale trovano rifugio coloro che non hanno dimora nel mondo normale, perché in quest'ultimo nulla è a misura delle loro capacità e delle loro aspirazioni. Non è la terra che si conquista, bensì il luogo a cui si approda, per lasciarsi cullare da quella selvaggia assenza di punti di riferimento.  Per viverci non occorre saperesaper fare alcunché, perché l’unico principio vigente è quello dell’abbandono alle bizzarrie di una natura primitiva, tra le quali ogni creatura, anche la più disorientata e stravagante, può agevolmente confondersi. È l’habitat del cowboy, un uomo senza arte né parte, un avventuriero senza avventura, che si dedica alla caccia di cavalli e di ragazze come ad un’anacronistica pratica di sopravvivenza, come al triste retaggio di un passato glorioso e romantico: gli stalloni non interessano più nessuno se non come carne da macello, e le donne non sono più fatte per essere mogli e madri. Le leggende sono ormai tramontate e ciò che resta è solo il male incurabile della solitudine. Il Nevada, la regione in cui nessuno porta l’orologio e in cui tutto si perde, fa da sfondo ad una storia con pochissimi personaggi in cui, ad incontrarsi per caso, sono essenzialmente le loro rispettive voglie di fuggire, di dimenticare il passato (un divorzio, un lutto, un tradimento, un incidente) per tuffarsi a capofitto in un futuro che abbia l’inebriante inconsistenza dell’oblio. Il teatro ideale, per questo gioco d’azzardo col destino, è proprio quel posto in cui a decidere della vita e della morte può essere la disponibilità di una ruota di scorta; e tutto, nel desolato ambiente circostante, richiama al principio del just live!, della rinuncia ad ogni decisione, perché quando non si sa cosa fare è meglio restare fermi, e nascondersi mentre il tempo scorre via. Scegliendo di affidarsi alla prossima cosa che accade, l’esistenza appare così affrancata dagli affanni della coerenza, benché non veramente libera, perché rozzamente ancorata alla concretezza dell’istante, e, soprattutto, mutilata dell’eterea appendice del superfluo. A svilirla è la visione che non la ritiene degna di fregiarsi di un bene voluttuario come la fantasia. Il senso della decadenza, che è il tema principale delle opere di Arthur Miller, non riguarda qui tanto la morale della società o il valore dei suoi miti, quanto la stessa capacità di sognare, di riempire la mente con immagini fittizie e  proiezioni che disegnino un universo migliore e alternativo rispetto a quello reale. Non c’è prospettiva di salvezza, ma solo uno sfogo affidato un po’ alla rabbia, un po’ al divertimento. E, per i protagonisti maschili di questo viaggio alla deriva, è terribilmente amaro rendersi conto che, in quel vuoto di pensieri e di sentimenti, l’unica occupazione che riempie i giorni è la ricerca di stupide conferme che li facciano sentire ancora uomini. The Misfits è un capolavoro di realismo poetico, di disincanto che ammalia, uno struggente racconto del silenzio che riesce a parlare e della mancanza di senso che arriva a spiegare le proprie ragioni; e, di fronte a questo straordinario gioco di opposti,  la nostra mente vaga ad inseguire il perché di ogni smarrimento.

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