Regia di David W. Griffith vedi scheda film
Griffith scopre i personaggi, e lo fa nel migliore dei modi: estraniandoli. L'opus n°400 di David Wark Griffith dietro la cinepresa rivela la maturazione di un regista che, fin da The Adventures of Dollie, dimostrava una grande sensibilità per gli spazi, per il taglio delle inquadrature, per la "resa prospettica" dei suoi campi lunghi (come anche avveniva, per esempio, negli inseguimenti di The Black Viper). Le sue immagini erano quasi ritratti, dipinti, raffreddati di fronte a eventi di grande dinamicità, con personaggi distanti e dopotutto anonimi che si muovevano qua e là nel contesto e di cui comprendevamo le azioni ma nient'altro. Fatte poi le dovute precisazioni (certamente ci saranno dei precedenti che rivelano la lenta progressione del regista fino a questo importante The Female of Species), è bene segnalare l'unicità di questa opera all'interno della sua filmografia, prendendo come assunto la dichiarazione iniziale che poi è il sottotitolo del film: A Psychological Drama. E Griffith è evidentemente consapevole di cosa possa voler dire simile locuzione. Le sue inquadrature si avvicinano ai volti, ai gesti più espressionistici dei corpi e degli sguardi, senza mai azzardare primissimi piani, ma sempre attento a rendere, tramite piccoli movimenti e piccoli cenni, il movimento interiore delle sue protagoniste.
Il suo The Female of the Species è (o vorrebbe essere) il ritratto tutto al femminile di tre donne, che dopo la morte del marito di una di loro dànno il via ad attriti e a rancori vicendevoli soprattutto da parte della moglie e di sua sorella nei confronti di una giovane donna che, forse, è stata l'amante del marito della prima. Griffith non prende posizione, mostra il terrore sul volto della terza e la rabbia sul volto della prima, gestendo l'inquietudine e la tensione con un montaggio secco e abbastanza attento, da andamento puramente narrativo. Il "vorrebbe essere" però c'è, ed è costante, perché (anche visti certi altri cortometraggi di Griffith) il suo lavoro potrebbe sembrare che sfiori la misoginia, con "femmine della specie umana" che si "sbranano" figurativamente fra loro. In realtà il film, su quest'ambito, potrebbe salvarsi viste le distanze che sussistono fra le varie posizioni caratteriali (che negano oltrettutto eventuali generalizzazioni); e pure lo sguardo coinvolto ma quasi entomologico di Griffith rivela che, alla fine, le donne godono di una sensibilità e di una capacità di comprendonio che pure sembra trionfare rispetto a un marito debole e all'inizio morto. E' pure vero, d'altro canto, che proprio il marito potrebbe essere stato ucciso da una di loro: qual è la vera posizione di Griffith al riguardo? E' inevitabile porsi domande del genere, viste le frequenti prese di posizione razziste di molte altre sue opere?
Anche se fosse, il suo film resta tecnicamente impeccabile: e la volontà di individuare e delineare psicologie e attitudini particolari dei personaggi è ben accompagnata dalla decisione di ambientare l'intero film nel deserto, in cui la fame, la sete e la sofferenza sembrano avvicinare sia bianchi che indiani (per quanto gli indiani muoiano, e le brave donne possono subito dopo adottare il loro figlioletto rimasto vivo fra le braccia della madre morta). Ma purtroppo i film di Griffith vanno scissi dal loro contenuto per quanto possibile, e compresi sempre nel loro contesto, un po' come i suoi personaggi che assumono, finalmente, spessore nel bel mezzo di un vuoto desertico riempito dalle ansie e dalle ossessioni.
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