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L'asso nella manica

Regia di Billy Wilder vedi scheda film

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La recensione su L'asso nella manica

di SamP21
9 stelle

Billy Wilder è associato, giustamente, alla commedia americana per eccellenza, ma prima era stato tra i padri del noir con almeno due capolavori totali del genere. Ecco perché sorge spontaneo domandarsi se questa pellicola possa rientrare nel macro-genere noir; in molti studi sul genere, del resto, si riconoscono nel film alcune caratteristiche tipiche del noir.

 

La trama in breve:

Chuck Tatum è un giornalista che, pur caduto in basso. non ha smesso di cercare il colpo fortunato. Lo scoop si presenta sotto forma di un’antica caverna indiana nella quale è rimasto semisepolto Leo Mimosa. Basterà ritardare i soccorsi e il caso arriverà ben presto sulle prime pagine. Alla fine Chuck si pente, ma è troppo tardi per tutti.

 

Chuck Tatum è uno dei personaggi più spregevoli del cinema classico americano,  uno dei più viscidi e velenosi. Tornando nell’ambito del noir, nella prima parte del film il protagonista potrebbe essere visto come una “Femme fatale” al maschile, un personaggio che sparge veleno che inserisce nel micro (o macro)-cosmo fino alle peggiori conseguenze.

 

È lui che ritarda i soccorsi, è lui che spinge il giovane collega verso l’amoralità, è lui che istiga la moglie; è proprio Tatum a fare tutto questo, a creare la notizia, lo scoop e il monte di denaro che scaturirà. Questa tesi però non regge fino alla fine,  perchè, in pochi fotogrammi e nel giro di pochi minuti della storia narrata, capiamo che l’universo interno raccontato da Wilder e soci è sporco, meschino, cattivo, viscido e appunto velenoso. Basti pensare all’arrivo del primo “curioso” con famiglia.

 

Non si salva nessuno da questa descrizione. Di Tatum diremmo di più, ma anche solo i ritratti degli altri sono altrettanto impietosi: la moglie, che rimane solo per fare soldi, pronta fin dall’inizio, come lo sarà alla fine, a lasciare tutto e tutti in nome dei soldi e per avere un fetta del sogno; il giovane giornalista, che entra ben presto nella parte del sodale di Tatum; lo sceriffo, che è la quinta essenza del viscidume; l’ingegnere, che pur di ottenere qualcosa vende la vita del povero uomo rimasto sepolto; la stampa, che risulta cinica e bara; il padre del ragazzo, che si vende lo spettacolo e poi tutto il circo a seguire. Forse l’unica che si salva è la madre che non ha però la forza di far nulla.

 

Il sistema mediatico viene mostrato in tutta la sua riluttante oscenità, il sistema America viene mostrato per quello che è, e quindi anche il capitalismo, l’uomo medio, il borghese qualsiasi. E’ un film dove non c’è, metaforicamente, mai il sole, le morali e le anime dei personaggi come degli astanti sono lì nel buio della miniera e rantolano, mentre la sete di notorietà, di soldi, di fama, dei cinque minuti di gloria aumenta e assorbe tutto, fino a creare un parco giochi accanto alla miniera dov’è è bloccato l’uomo senza ossigeno, con tv, giornalisti, circo, radio, tutti lì pronti a godere dell’evento.

 

Tatum avrà poi un piccolo dubbio, cercherà nel finale di fare qualcosa, un breve momento di umanità.

 

Ecco perché la tesi della femme fatale non regge, perché il mondo mostrato (ricordo che siamo in un paesino sperduto nel cuore dell’America!) è completamente avvelenato. Certo non era la prima volta che la stampa, o più in generale il sistema mediatico, fosse raccontata così; si pensi su tutti a “Quarto potere”. Il mondo del 1941, l’America soprattutto, era però diverso da quello del 1951. Negli anni’50, post Seconda Guerra mondiale, un film del genere non ha avuto presa, anzi è stato dimenticato, poco visto; gli americani probabilmente non volevano più vedere quel tipo di ritratti, che proprio il noir aveva mostrato in precedenza.

 

Giornali, critica e pubblico disertarono il film, lo stesso Douglas chiese più volte a Wilder di alleggerire il carico, di ammorbidire quel personaggio, ma Wilder come sappiamo ha tenuto duro ed è  riuscito a confezionare uno dei racconti più neri-noir, del periodo.

Del resto anche il noir, lo scopriremo grazie ai saggi degli anni ’50 e ‘70, negli anni cinquanta stava affrontando una nuova via, stava cambiando, abbandonando il lato onirico-psicoanalitico e decretando la parziale scomparsa dallo schermo dei detective. La fase “cronistica”, ovvero  i polizieschi basati sul “realismo” delle immagini e delle storie, stava andando per la maggiore e anche l’atto di mostrare il lato oscuro della società americana, del sogno americano, era diventato più complesso; ecco dove si inserisce “l’Asso nella manica” ed ecco perché il film è in parte un noir, per lo spietato protagonista, per il nido di vipere che scoperchia e per l’attacco al sistema mediatico-sociale.

 

Tralasciando per un attimo l’aspetto dei generi, il posizionamento del film e i confini del generi, possiamo invece notare come il film sia in anticipo sui tempi nel mostrare un qualcosa che nel corso dei decenni è diventato naturale. Si sono susseguite tante analisi del sistema mediatico in tal senso, ma Wilder e soci hanno il merito di anticipare la tv del dolore, di attaccare la stampa, all’epoca ancora un baluardo della democrazia, di minare l’istituzione della famiglia (e il noir in questo è maestro) e di mostrarci una serie di piccoli personaggi, di uomini comuni avvelenati dal sogno americano.

 

Wilder poi è in grado di mostrare anche momenti da commedia: lo sceriffo che dà da mangiare al cucciolo di serpente, le battute sardoniche del protagonista. In sostanza con questo film riesce a creare un varco tra il (suo) cinema precedente (che capitolava, forse, proprio con il suo “Viale del tramonto”) e quello futuro.

 

Douglas, che era già un buon protagonista di Hollywood e aveva interpretato ruoli di cattivo, non sarà mai più così spregevole: il suo personaggio inventa uno scoop condannando un uomo alla morte, aiuta l’osceno sceriffo a farsi rieleggere, schiaffeggia una donna, usa gli altri. E’ un personaggio tra più biechi mai visti, senza però essere un vero e proprio “cattivo”. Anzi il suo breve ripensamento finale lo avvicina ancora di più alla persone medie;  si rifugerà poi in ruoli più “semplici” ed umani. Il resto del cast vede performance tutte di livello alto.

 

Wilder ci regala immagini visivamente eccezionali; si pensi al finale, al protagonista che barcolla e cade, cade sotto il peso delle sue azioni, cade come capro espiatorio di un sistema marcio, cade addosso alla macchina da presa e con lui tutto sistema; si pensi alle immagini girate dentro alla/nella miniera.

 

Breve parentesi sull’incipit, sulle miniere. Il western avvolge il film: le miniere, la ricerca del bottino, gli indiani, la locanda. Lo sventurato Leo, a cui nel film viene dedicata una canzone con sonorità country, cerca il tesoro, il tesoro per elevare la sua posizione, per regalare una vera pelliccia a sua moglie (incontrata in un club) ed ecco come si svolge e come finisce a volte il sogno americano; e il western che, a modo suo, ha raccontato anche il sogno americano, ha trattato spesso di cercatori di oro, e tra i tanti ci tengo a ricordare l’epocale e pessimistico “Terra Lontana” di A. Mann con protagonista un monumentale James Stewart.

 

Come in molti noir, anche qui il protagonista muore perché, pur essendo alla base della storia, è lui che l’ha ingegnata ed alimentata, è una storia più grande di lui che non può che travolgerlo; è un affare più grande, un’avidità, un’esigenza che neanche un piccolo squalo, un uomo squallido, come lui può ridimensionare e contenere, e per questo ne paga le conseguenze. Uno dei film più neri di quel periodo.

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