Regia di Walter Veltroni vedi scheda film
Siamo lontani anni luce da Errol Morris e dai suoi incandescenti ritratti americani, e siamo distanti, molto, dall’emozione che invece suscita La voce di Berlinguer, nella sua tesa brevità, nelle sue parti musicali
Quando c’era Berlinguer di Walter Veltroni, cineasta prestato alla politica (a quanto pare), segue di pochi mesi La voce di Berlinguer
di Mario Sesti e Theo Teardo, visto a Venezia70 nella sezione Fuori Concorso, dunque è inevitabile porsi qualche domanda sull’imperversare del ricordo e fare confronti.
Cinematografici, intendiamoci, entrare nel merito della Storia non spetta ai film, se mai un film può suscitare la voglia di leggere libri, la Storia è il regno dello spirito e la sua ricostruzione si sgancia dalle immagini e dalla fisicità delle idee incarnate negli uomini.
Pensiamo piuttosto allo spettatore disarmato, magari giovanissimo, inevitabilmente inconsapevole di tanta storia alla sue spalle, che nel giro di pochi mesi vede riapparire due volte ai suoi occhi un fantasma del passato, recente, ma pur sempre passato.
Lo spettatore disarmato comincia subito a chiedersi perché.
E’ forse il fantasma di Banquo in chiave post moderna che viene ad ammonirci? Noi figli di epoca renziana, reduci dalle barricate berlusconiane (pro o contro poco importa, ciò che conta è la conferma che in Italia la storia si misura a ventenni) possiamo imparare qualcosa da questa copiosa fuoriuscita di ricordi del tempo che fu?
E quei ragazzotti intervistati nella infinita sequenza iniziale da Veltroni (la domanda è sottintesa, sentiamo solo risposte: sai chi era Enrico Berlinguer?) ci stupisce che rispondano come rispondono? Ci indigna?
Veltroni si aspetta che diciamo sì, tanto, o tempora o mores, ‘sti bamboccioni che sanno solo pensare allo smartphone!
Io dico di no.
Io dico che mi indigna un film che gioca sulla retorica più bolsa per parlare di cose molto serie, che sgrana come una corona di rosario i soliti noti, da Napolitano con la voce rotta dalla commozione a Ingrao che quasi muore sulla scena, e non manca neanche Franceschini, il brigatista rosso che continua a rilasciare interviste come allora (cominciò con Zavoli, ma quelle erano ricostruzioni serie, altri tempi!) e la chicca finale dei registi/attori engagées dell’epoca, riuniti in un doveroso embrassons nous a sancire così la vocazione di Veltroni per la politica e la regia cinematografica insieme.
Quel mare di rosse bandiere e di fiori e di lacrime e di addii, che cantavano i Modena City Ramblers al funerale di Berlinguer oggi ha cambiato voce, è quella di Gino Paoli che confeziona ad hoc La canzone dell’addio (cito a memoria, più o meno il titolo parla di addii), grondante lacrime amare dall’inizio alla fine.
Le immagini di repertorio sfilano, la ripresa aerea è suggestiva, forse solo il funerale di Togliatti è equiparabile, ma allora il b/n rese meno del colore oggi.
Dal confronto con Sesti e TeardoVeltroni esce maluccio: 20 minuti contro quasi due ore, già basterebbe.
Ma quel che non funziona non è la durata, è la noia della durata.
Sono le scelte di regia, con quell’assemblaggio televisivo di immagini di repertorio e interviste.
Siamo lontani anni luce da Errol Morris e dai suoi incandescenti ritratti americani, e siamo distanti, molto, dall’emozione che invece suscita La voce di Berlinguer, nella sua tesa brevità, nelle sue parti musicali (Teardo è al suo meglio) nella scelta di regia di puntare solo su quelle due cose che, davvero, di Berlinguer ricordiamo tutti con infinito affetto e commozione: il suo discorso sulla questione morale e la sua morte. Sulla scena, come un grande attore.
Sesti disse che il suo film voleva “rendere visibile un mondo lontanissimo dalla smaterializzazione on line della politica di oggi”, Veltroni punta sulla nostalgia/canaglia, non è la stessa cosa.
A vedere La voce di Berlinguer, peraltro mai arrivato in sala nel resto del Bel Paese, c’erano molti giovani, ieri no.
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