Regia di Alberto Rodriguez vedi scheda film
Le paludi della morte
Sui titoli di testa, come se guardassimo da una lente d’ingrandimento, scandagliamo con graduale progressione la vasta pianura alluvionale del Guadalquivir, nel sud della Spagna. Dapprima riprese satellitari, poi ampie panoramiche a stringersi sulla ramificata regione paludosa che occupa la parte più prossima alla costa atlantica. Fino a poterla distinguerla ad occhi nudo.
Ed ecco che ci imbattiamo in luoghi remoti e malmessi, eppure ricchi di fascino, poco popolati, isolati dal resto del Paese, dove il tempo pare essersi fermato.
Uno dei tanti inferni sulla terra, fatto di acqua stagnante, oceani di fango tutte le volte che piove e tavolati aridi e stepposi, luogo ideale di atroci fatti di sangue che lì si sono consumati, dal 1976 al 1980 (l’anno della nostra storia), appena dopo la fine della quasi 40ennale feroce dittatura franchista.
I budelli ricurvi di terra solcata dalle acque, visti dall’alto, sembrano rimandare alle intricate, labirintiche anse del cervello umano. Ci pare scorgere, addirittura, i 2 emisferi che lo costituiscono, separati dalla fenditura centrale qui rappresentata proprio dal fiume che, scavando, s’innerva nel terreno.
Come a voler stabilire un legame tra luoghi geografici e luoghi della mente.
Come a voler dire che la Nazione tutta, rappresentata da siffatti pantani insalubri, dove ogni cosa è immobile e immutabile, nell’uscire dal devastante regime totalitario che ha plasmato in maniera irreversibile la sua natura, forgiato la sua forma mentis, condizionandone in profondità i comportamenti, stia adesso, con l’avvento del nuovo pensiero democratico, vivendo un delicato momento di smarrimento, di acuta crisi d’identità, di uno sdoppiamento di personalità dalle drammatiche, irreparabili conseguenze.
Una sorta di schizofrenia della coscienza, in cui il buono della rinascita (di una morale sana, leale, rigorosa, incorruttibile) è costretto, suo malgrado, a sgomitare con il marcio di un passato che è parte integrante del proprio dna, che ancora scorre (e sempre scorrerà) nelle vene di chi in quel passato ci è nato, lo ha vissuto come condizione naturale, finendo col rimanere imbrigliato nelle contorte reti delle aberrazioni che lo hanno contraddistinto.
Una coscienza malata, che sa di trovarsi allo stadio terminale, e forse, proprio per questo, quando si risveglia dal sonno profondo che la protegge, si manifesta ancor più irrazionale, spietata e sanguinaria.
Perché il bisogno fisiologico di prevaricare sull’altro, di dominarlo, di lasciargli impressa sulla pelle l’indelebile firma del proprio passaggio, resta oramai la sola prova della sua esistenza.
E, naturalmente, sono le donne le creature che pagano il prezzo più alto.
Oggetti di un desiderio perverso e deviato.
Quelle che, sempre e comunque, vengono sacrificate e massacrate.
All’epoca della dittatura, relegate alla sola sfera domestica, adesso, in un abbozzo di democrazia dallo scheletro ancora tanto fragile, violentate, torturate e mutilate. In nome di un’emancipazione inseguita a tutti i costi. Per agguantare anch’esse, come le altre sorelle europee (e occidentali), quel sogno di indipendenza, di libertà capace di rendere la vita degna di essere vissuta.
La isla mínima è una pellicola costruita secondo i modi, i meccanismi, le dinamiche del poliziesco all’americana, permeata dai toni malinconici e scandita dai ritmi lenti tipici del noir, attraversata sottotraccia da una serie di sfumature sapientemente disegnate lungo il percorso ben definito della classica indagine per omicidio, che ne scompagina la struttura elementare, lasciando così intravedere dietro l’evidenza oggettiva una realtà soggettiva, una verità altra, sfuggente, incorporea, che gli occhi non registrano nell’immediato, ma che i sensi riescono a percepire distintamente.
Sensazioni, dunque, una fitta coltre di sensazioni che si affollano durante la visione (delle quali, andando a ritroso con la memoria, è facile trovare corrispondenze empiriche incontrovertibili), che unite a piccole, significative, rivelatrici gemme visionarie arricchiscono la sostanza del film, rendendola un’opera sorprendentemente stratificata, un’originale, complessa, amara riflessione sul trauma del cambiamento e l’inevitabile scia di macerie psicologico-emozionali che si porta dietro.
Le ombre del passato non si dileguano al sorgere del sole.
Sono degli spettri iracondi che tormentano le nerissime notti insonni di chi ne è caduto (per sua stessa mano) preda, soprattutto quando ad animarli è la loro sacrosanta sete di giustizia.
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