Regia di Kornél Mundruczó vedi scheda film
Negli ultimi anni, il cinema dell’est Europa sta dando segnali importanti. Se dalla Polonia siamo abituati da sempre ad assorbire grandi nomi - ieri Krzysztof Kieslowski, sempre e comunque Jerzy Skolimowski e oggi Pawel Pawlikowski - e la Romania da una decade ha attirato i riflettori su di sé - Cristian Mungiu, Cristi Puiu e tanti altri -, l’Ungheria non vuole essere da meno e ha cominciato ad alzare la voce. Nel 2015, con Il figlio di Saul, Laszlo Nemes ha vinto vagonate di (meritati) premi e con questo titolo nel 2014 Kornél Mundruczó ha trionfato nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2014, accreditando il suo nome al punto di essere invitato nel concorso principale dell’edizione 2017 con il seguente Jupiter’s moon (peraltro, accolto malissimo, va detto).
White God è un’opera singolare e audace, che fa ricorso a canoni espressivi classici (prima attinenti alla famiglia e poi al noir) per intraprendere un’impresa produttivamente folle, che vede i cani guadagnarsi il proscenio, anche, e soprattutto, per coltivare un florido terreno tematico, reso impervio e altternativo dal punto di vista che privilegia: quello a quattro zampe.
La dodicenne Lili (Zsófia Psotta) deve trasferirsi dal padre (Sándor Zsótér) che non vede da tempo, assieme al suo inseparabile cane Hagen. Tra la ragazzina e l’uomo, sembra impossibile raggiungere un equilibrio e quando, dopo una lite, Hagen finisce in mezzo a una strada, Lili comincia a cercarlo disperatamente. Nel frattempo, il cane è chiamato ad affrontare le sfide più impervie insieme a un gruppo di suoi simili, scappando da chi è pagato per catturare i randagi e chi addestra gli animali per allestire dei combattimenti clandestini.
Sta per prendere corpo un’azione che nessuno poteva valutare.
White God va oltre qualsiasi preordinata visione si possa avere in mente e proprio in virtù della sua natura è giusto considerarla. Infatti, se la coerenza è messa a repentaglio, il centro gravità risiede altrove e richiede di osservare con occhi diversi, anzi di posizionare proprio lo sguardo su un’angolazione inedita.
Kornél Mundruczó si adopera in una mission impossible: prima ondeggia tra il punto di vista di una ragazzina e quello del suo amato cane, poi vira quasi completamente su quest’ultimo, attraverso il quale, più o meno direttamente, enuclea temi condivisi che contemplano la comprensione, l’emarginazione che arriva fino alla persecuzione, lo sfruttamento del corpo per denaro e un dialogo sempre più problematico da stabilire, sempre senza avere alcun pelo sulla lingua.
Questa disposizione è proposta dall’autore spostando gradatamente il baricentro dagli umani ai cani, alzando di conseguenza la posta in gioco, incardinando un doloroso cantico di una creatura di Dio, tra abbandono, sfruttamento, violenza e, di ritorno, una vendetta esponenziale, tra combattimenti clandestini che obbligano a uccidere, il cuore puro raso al suolo e l’odio che si diffonde, con un lumicino di speranza sempre visibile ma anche tanta rabbia, impossibile da sedare.
D’altro canto, che si tratti di uomini e animali, c’è sempre un estremo bisogno di un gesto d’affetto, o anche solo di una semplice apertura, basterebbe questo per risolvere anche la peggiore delle diatribe, ma poi è sempre più facile passare per la repressione, lasciando vincere il rancore e la presunzione di superiorità, che in questo caso vengono smantellati dalla vendetta di un cane tranquillo, un’invenzione subliminale, che trasforma una città in un campo di battaglia, per un percorso che acquista l’intero ventaglio base del noir.
Con questo upgrade, Kornél Mundruczó va oltre i ruoli, stabilisce un nuovo ordinamento, attraverso un dinamismo action, con un movimento perpetuo che frantuma la classica concezione dei film di famiglia con cani (Beethoven e Io & Marley tanto per dirne due), approdando nel finale alla poesia della condivisione, dell’ascolto e della tolleranza, uno prostramento che permette di aprire nuovi squarci, placando l’ardore dell’odio.
Ricordando che è fin troppo facile cercare incongruenze e che alcune scene madri sono (inutilmente) urlate a squarciagola, White god rimane un’opera potente e impavida (già solo la gestione dei cani è un’impresa), un’allegoria sulle trasformazioni sottese dalla società, che trova un impatto sferzante, descrivendo un contorno sordo, prevaricatorio e bugiardo, metaforicamente affine alla chiusura mentale che l’Ungheria ha manifestato a più ampio livello in questi anni (per esempio, nella questione profughi).
Dissonante, fluttuando senza pudore sull’inverosimile. Da accogliere, a braccia aperte.
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