Regia di Christian Petzold vedi scheda film
Nel cinema di Petzold, l’universale ricade sempre sull’individuale. Le ferite sul volto dell’ebrea Nelly, di ritorno a Berlino dal lager di Auschwitz - inquadrato soltanto in un flashback onirico, che smentisce il ricordo per attestare la rimozione - sono quelle di ogni perseguitato. Il suo corpo è il corpo della Storia. All’annientamento dell’Io subito nel campo corrisponde il desiderio di riappropriazione della propria immagine identitaria riposto in una plastica facciale, grazie alla quale tornare da un marito che (inconsciamente) non la riconosce, ma ha bisogno di “una Nelly” per appropriarsi dell’eredità. Irrompe il paradosso della Storia: Nelly, in una costruzione drammaturgica abissale, per tornare a essere Nelly deve interpretarla. Dal piano estetico, la questione identitaria scivola su quello etico, mentre Petzold impagina una Berlino che prende corpo da fassbinderiani toni noir postbellici, per poi maturare una consapevolezza formale geometrica, essenziale, assertiva. Oggetti residuali da inquadrare in camera fissa, come brandelli di una memoria che si rifiuta di affermarsi. Rigore fotografico, sottrazione di colonna sonora, personaggi dispersi sul viale della dimenticanza. Epifanie implose nella cesura del movimento di macchina, con stacchi di montaggio netti, brutali, a smentire la fluidità del ricordo. Il segreto del suo volto è un film inesauribile, l’ennesimo di un cineasta cui aggrapparsi disperatamente.
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