Quello che stanno facendo in questi mesi le bestie dell'ISIS va oltre ogni barbarie concepibile. Riprese di teste mozzate, gente bruciata viva, siti archeologici devastati: tutto in nome di un cumulo di stronzate derivate da una lettura abbastanza fantasiosa del Corano. Sissako era consapevole del rischio di fare un film che allineasse la pletora di orrori perpetrati dai fondamentalisti islamici, limitandosi a ribadire l'ovvio, magari forzandolo con qualche sottolineatura retorica. "Timbuktu" non sempre si sottrae a questa sterile idea di cinema, ma tutto sommato riesce ad evitare sia le rovinose cadute nel moralismo d'accatto sia la spettacolarizzazione del dolore che simili operazioni spesso comportano.
Il fondamentale pregio stilistico di questo film discreto, non eccezionale, senza particolari picchi espressivi, risiede in una certa asciuttezza nello sguardo, per mezzo di un montaggio che mostra l'orrore senza ipocrite omissioni e senza compiaciute speculazioni. Detto questo, ci si aspettava forse qualcosa in più sul piano della ricerca stilistica, qualche espediente che rendesse più espressive le immagini (e quindi più potente lo sguardo) rispetto ad un realismo dignitoso che però non concede particolari sottotesti (sì, anche i film cosiddetti "necessari" hanno bisogno di invenzioni formali e di complesse chiavi di lettura per essere validi, quindi efficaci nella denuncia). Sissako accarezza più volte il simbolismo (gli idoli distrutti dai proiettili, la gazzella che scappa, il pallone che vaga per il villaggio) senza però mai lasciare che questo prevalga sul dato oggettivo: una scelta forse voluta, ma che finisce per privare il film della ricchezza di metafore e sfumature che avrebbe potuto offrire (come ad esempio in certo cinema iraniano, Naderi, Ghobadi, Samira Makhmalbaf in primis, a cui idealmente, per ambientazione e temi, mi verrebbe in parte da accostare il film di Sissako). Certe sequenze sono valide, come il campo lunghissimo dopo l'omicidio del pescatore, con la sagoma di quest'ultimo, moribondo, che si muove a fatica, come un insetto dopo essere stato schiacciato. Altre invece suonano enfatiche e risapute, come i ragazzini che giocano a calcio senza pallone e il soundtrack che si fa improvvisamente minaccioso nel momento esatto in cui entra in scena la moto dei jihadisti.
Sul piano dei contenuti invece il pregio maggiore del film sta nella qualità dialettica con cui Sissako ha inteso rappresentare il conflitto fra fondamentalisti e civili. I jihadisti in questo film non uccidono a tradimento, addirittura dialogano con religiosi, donne e chiunque altro, attenendosi scrupolosamente alla legge. Il problema è che la loro legge è quella aberrante della Sharia. Durante il dialogo con l'Imam e quello con il condannato, il capo della polizia jihadista mostra rispetto e comprensione. Tutto questo potrebbe far pensare ad una pericolosa "umanizzazione" di una pratica, la jihad, che di umano non ha proprio niente. E invece è il contrario, per fortuna. Sissako mostra persone dal carattere mite compiere atti orribili e proclamare princìpi indifendibili, proprio perchè succubi di una ideologia bestiale come quella dell'Islam fondamentalista. Non sono le persone, in sè, ad essere orribili, ma i disvalori in base ai quali agiscono. Lo stridore che si genera fra il ritratto di persone normali, di per sè non così diversi da poliziotti e funzionari occidentali, e la rappresentazione del mondo di cui questi ultimi sono scrupolosi custodi, un mondo tragicamente ridicolo dove non si può giocare a calcio, ascoltare la musica e fare qualsiasi altra cosa consentita in qualsiasi paese civile, genera quel naturale straniamento che permette allo spettatore di cogliere le "ragioni" più profonde della follia fondamentalista.
Interessante risulta essere il discorso abbozzato sulla manipolazione linguistica (in una città in cui si parlano più lingue, capita che gli interpreti non traducano determinati dialoghi, indirizzando così il senso di una discussione) e mediatica (un jihadista "dirige" un video di propaganda come se fosse un regista di film). Meritava invece uno sviluppo più articolato il tema dell'invadenza tecnologica (il paradosso di una società poverissima dove però non mancano i cellulari di ultimo modello). Suggestivo il sogno della bambina, che conta le 40 mucche che salverebbero la vita al padre; riuscita anche la sequenza in cui un jihadista corteggia senza esito la moglie del protagonista. La sequenza in cui i poliziotti setacciano la città cercando di scoprire da dove venga la musica che ascoltano è notevole nella sua reale assurdità. Nella seconda parte, il film sconta però qualche calo di intensità. In definitiva, "Timbuktu" è un'occasione in parte mancata sul piano espressivo, ma ha il merito di offrire una visione nitida, non banale, della questione islamica.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta