Regia di Abderrahmane Sissako vedi scheda film
In una sola sequenza, poesia, tenerezza e ironia, una sequenza costruita con squisita sensibilità visiva, tanto sincera quanto primordiale, cruda e spiazzante come solo le cose vere riescono ad essere, e per questo violenta, un pugno allo stomaco che fa tornare a respirare dopo il soffocamento nel torrido e soffocante deserto del Mali. Un gruppo di ragazzini, che non possono non ricordare Blow-Up benché in tutt’altro contesto, giocano con una palla invisibile al gioco del calcio, quello che la polizia jihadista appena arrivata a Timbuktu proibisce insieme alla musica e a qualsiasi forma di intrattenimento svolta in bella vista per strada. Nelle loro corse, tra le quali si concretizza certo sogno occidentalizzante (la maglietta di Lionel Messi), si dà improvviso libero sfogo a un sogno di libertà violentato dalla realtà deflagrante di un paese dimenticato dagli uomini e probabilmente anche da Dio. Mentre uno dei ragazzi prende la rincorsa per calciare la palla inesistente, passa tranquillo un asinello ad ostruirgli l’eventuale fantomatica traiettoria, e i giocatori aspettano l’animale che passa con calma da un lato all’altro dell’inquadratura, questa come altre che si rivela essere un quadro visivo da lasciare abbagliati, con la sabbia un po’ fluttuante nell’aria scossa dai giochi e con il sole a picco, troneggiante sulle disgrazie umane.
Una donna, a dire il vero una delle poche cui è concesso di girare per la città senza coprirsi il capo e le mani, sorta di stregona che incute timore anche nei più fedeli integralisti, con quel gallo in mano che sembra sempre lì lì per strangolare, sta coricata ad osservare una di quelle stesse guardie jihadiste, attiva in un ballo lento e melodioso, in cui l’immagine lievita e si sofferma laddove il corpo dell’uomo non si vede più, o compare solo in cortissimi fotogrammi durante i suoi salti, mentre è in aria, momenti cinematografici che si estendono all’infinito a colmare i vuoti desolati degli spazi e delle menti. Un ballo proibito, quello realizzato dall’uomo, accompagnato da una musica (fuori campo) proibita e castigatissima, eppur sinuosa ed elegante, commovente. Una sequenza staccata dalla linea narrativa (non essenziale, ma comunque presente), che non suona come parentesi isolata, o aggiunta posticcia, quanto piuttosto come un componente fondamentale di un amalgama molto più complesso.
Un uomo, diciamo pure il protagonista, uccide per errore l’uomo che ha ucciso una mucca del suo bestiame (quella GPS dal nome di occidentalizzante memoria), e il disastro si annulla all’improvviso nell’immensità dello spazio. Un campo lungo, un grandangolo, il fiume incriminato su cui scorre il sangue più assurdo e/o innocente è visto in tutta l’estensione di una sua ansa, e l’involontario assassino comincia a correre prima sommessamente poi più deciso lontano dal luogo del delitto, attraversando tutto il fiume dall’acqua bassa, e lasciando una traccia dietro di sé che irrompe nella secca e arida immobilità delle acque. Sussulta anche il morto, che tenta un ultimo inane sollevamento. I corpi sono minuscoli, parti dell’immagine. Non c’è nulla da comprendere, c’è solo da guardare, e da respirare terrorizzati, mentre torna alla mente il percorso del diaziano Heremias verso l’incerto futuro (un corpo sempre più piccolo annullato nel paesaggio e dall’alta montagna), e torna alla mente l’auto de E la vita continua così come la rincorsa di Sotto gli ulivi, del maestro dei paesaggi con presenze umane Abbas Kiarostami.
L’assassino involontario, oltre ad essere condannato a morte, dovrà ripagare un debito donando 40 mucche alla famiglia del morto, benché lui ne possegga solo 7 (8 considerando GPS). Un bambino, che nulla sa della condanna di quello che è quasi suo padre, sogna in silenzio che comincino a correre nel deserto 40 mucche (ne conta fino a 39), sbucate fuori dal nulla manco il mare di Acqua, vento, sabbia di Amir Naderi, forse in maniera ancora meno spettacolare, ancora meno catartica.
Quel bambino corre, la bambina corre, un misterioso personaggio su un motore corre, deus ex machina che ha concesso l’ultimo abbraccio spezzato del protagonista con la moglie. Una famiglia distrutta, e la figlia dodicenne, la bambina, che corre senza speranza.
Sissako costruisce l’inquadratura con silenzioso lirismo e quieta grazia, con quella lentezza “mastodontica” che tramortisce e fa annegare dentro se stessa l’attenzione dello spettatore, così come succedeva nel ben più evanescente Aspettando la felicità. La poliglossia salva Le chagrin des oiseaux dal possibile semi-disastro del doppiaggio; l’approccio della regia non possiede vittimismo né pietismo da raccatto (quanto piuttosto una splendida compassione); le musiche, sempre di meno e sempre più rade nel tessuto sonoro del film, mentre il minutaggio scorre, lasciano spazio al silenzio di una natura indifferente, privata di tutto, spogliata, liquefatta nelle ansie e nei dolori, circondata mesta dal cordoglio degli uccelli.
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