Regia di Abderrahmane Sissako vedi scheda film
Se il titolo dell’ultimo Abderrahmane Sissako è Timbuktu, è perché si tratta di un film che è oltre la logica del singolo, un cinema-città in cui si mappano quartieri e frammenti sociali che coesistono, falde che s’allargano, incontri che producono sismi. Nell’uomo («Sono io, il terremoto», asserisce una folle), in un luogo - il Mali, che sta per ogni paese - nello spirito di una religione (l’Islam). Ispirato da una storia reale (la lapidazione di due conviventi rei di non esser sposati), Sissako preferisce al cronachistico, al facile dramma ricattatorio, un quadro complesso, composto da quadri in attrito. La storia vera, qui, è una tra le altre. Perché Timbuktu è un film corale, che narra di un paese sottoposto alle regole integerrime di una jihad che intimidisce e reprime, che spara sugli idoli per riscrivere il folclore, che ricopre le donne e oscura il buon senso, che pretende d’aver fatto i conti con la parola di Dio. Un film che coglie la tragedia dell’uomo e cerca il paradosso del potere, commuove di realismo come Rossellini e coglie l’assurdo di regime come Suleiman. Un cumulo di storie e personaggi, lirismo dolente e umorismo vignettistico, realismo scioccante e simbolismo elementare: Sissako, con la fotografia del Sofian El Fani di La vita di Adele, restituisce le forme con cui si dispiega la legge ottusa dell’integralismo. E sa fare, di queste macerie, senso materiale su cui fondare poesia.
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