Regia di Abderrahmane Sissako vedi scheda film
Il termine necessario ben si presta a quest’opera del regista mauritano Abderrahmane Sissako che inquadra con rigore quanto l’azione jihadista possa condizionare con violenza la vita di persone e famiglie normali il più delle volte credenti, ma che non vogliono, o non possono, sottostare a leggi sempre più restringenti.
A Timbuktu la polizia islamica è impegnata nella jihad obbligando la popolazione locale ad un numero sempre maggiore di divieti, tra gli altri quello di portare i guanti in pubblico per le donne e non poter giocare a calcio.
Poco distante dalla cittadina vive una tranquilla famiglia che per un fatto di violenza vedrà dissolversi in poche ore quanto costruito in anni.
Da un fatto di cronaca Sissako prende lo spunto per raccontare una storia che è un vero e proprio pugno nello stomaco, dominata dalla violenza, che il regista vuole e riesce a mostrare soprattutto nei limiti alla libertà che provoca senza quindi un utilizzo gratuito della stessa limitando allo stretto necessario quelle inerenti il piano fisico.
Si tratta di una scelta sicuramente meritevole che accompagna una struttura lineare e comunque in crescendo nel dramma e nella brutalità con le donne principali vittime di restrittivi, quanto inutili, divieti (come dice una di loro, perché dovrebbero coprir ogni lembo di pelle, basterebbe che gli uomini girassero lo sguardo altrove) che però non risparmiano nessuno, così che trovarsi a casa di una coppia sposata diventa un crimine e cantare lo è ancora di più.
Anche il gioco del calcio è vietato, da qui una delle scene più particolari, con un gruppo di ragazzi che gioca solo pensando che ci sia la palla e che all’arrivo della polizia inscena esercizi vari per distogliere la loro attenzione; una scena fantasiosa che può essere vista come un colpo d’ala o come una forzatura non del tutto riuscita (personalmente propendo per la seconda ipotesi, ma il coraggio di provarci non è comunque sottostimabile a cuor leggero).
Nella seconda parte diventa protagonista una famiglia amorevole che per un’incidente vede sgretolarsi tutto, da qui il finale tra la metafora (il cerbiatto che corre inutilmente a perdifiato) e la crudissima realtà.
Un film solido, realisticamente crudele, forse un po’ scontato nelllo sviluppo per emergere completamente, ma senza dubbio da vedere (anche se sarà difficile sperare in una regolare distribuzione) per prendere, qualora ce ne fosse bisogno, atto delle barbarie che succedono laddove l’occidente sviluppato non ha alcuna intenzione di andare a mettere le mani (nessun interesse economico è uguale a nessuna decisione).
Opportuno, per quanto non abbia suscitato appieno il mio entusiasmo.
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