Regia di Abderrahmane Sissako vedi scheda film
Un’intera città ostaggio dei jihadisti è lo sfondo naturale, la cornice di questo piccolo, imperdibile gioiellino sulla banalità del male girato con una buona dose di ironia e leggerezza, nonostante la “tragicità” dell’assunto, le brutalità narrate e una crudezza a tratti insostenibile, ma della quale non era assolutamente possibile farne a meno, da Abderrahmane Sissako, uno dei pochi registi africani conosciuti ed apprezzati anche in occidente e Maestro assoluto di quella cinematografia (lo ricordiamo autore di opere importanti quali Bamako, Waiting for Happiness e La vie sur terre). E non è assolutamente un caso che questa città sia Timbuktu, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, considerata una delle sette meraviglie del mondo, le cui magnificenze non solo strutturali ma anche culturali con i suoi inestimabili tesori, compresi i manoscritti di Avicenna, scienziato persiano e precursore della medicina moderna vissuto intorno all’anno mille, sono – “erano” si dovrebbe purtroppo dire adesso - a disposizione della conoscenza di tutti: Timbuktu appunto, non più Tombouctou la mysterieuse, il magico miraggio della leggenda, ma ormai soltanto un aspro, cupo e spietato luogo ostaggio del bigottismo e della paura.
Era il 2012 quando le milizie integraliste provenienti da altri luoghi (a partire dalla Libia) la invasero per farne il loro quartier generale portando non solo devastazioni e terrore, ma anche programmatiche “distruzioni” atte a colpire soprattutto il patrimonio delle conoscenze (quello dei luoghi e della gente, come l’ha definito Mauro Gervasini), principale nemico di ogni ortodossia, e cominciare proprio da lì, da questo luogo simbolo, a tracciare le linee guida di un percorso in progress che adesso avvertiamo insidioso anche sulla nostra pelle con molta preoccupazione, ma pochissimo coraggio oppositivo (parlo dell’inerzia dei Governi e delle Nazioni). Uno sgretolamento della civiltà che non sappiamo ancora a quale deriva finale ci condurrà, ma che sarà a mio avviso ancor più tragica e definitiva di ciò che è già accaduto dopo i fatti dell’11 settembre del 2001. Questa volta credo davvero che in nessuna parte del mondo – e in questa escalation strisciante io ci trovo molte analogie persino col nazismo, ugualmente troppo a lungo sottovalutato e addirittura “tollerato”- pur nella migliore delle ipotesi (ma su questo sono decisamente pessimista), dopo niente potrà essere ancora come prima (non lo è più nemmeno adesso, come testimoniano i luttuosi fatti di ogni giorno).
Questo rigoroso, intenso film in bilico fra speranza e disperazione, sviluppato come un puzzle che mette in scena in parallelo molte vicende che ruotano comunque intorno a un nocciolo centrale (l’uccisione di una mucca, affettuosamente denominata "GPS" - un simbolo davvero appropriato, che sembra definire già da solo le contraddizioni di un paese sospeso fra passato e presente che, seppure attratto dalla tecnologia dell’oggi, è invaso [e sottomesso] da una intollerabile barbarie medievale che gli sta facendo smarrire la strada per una definitiva emancipazione verso la libertà), ha il suo motore propulsivo e la sua vera fonte ispirativa in un fatto di cronaca accaduto in una città del nord del Mali, “recuperato” casualmente dalla visione di un video postato su Youtube dagli stessi assassini, quello della lapidazione di una coppia la cui sola colpa era quella di non essere sposata e di aver messo al mondo due figli, e quindi agli occhi distorti di questi integralisti dell’orrore, da “giustiziare” con la disumana atrocità richiesta da un ormai antistorico fondamentalismo religioso (che ci rimanda per quel che ci riguarda, ai terribili anni dell’inquisizione) e che, si badi bene, ingloba comunque non solo l’Isis, Al Quaeda o Boko Aram e conseguenti, ma tutto l’islamismo estremo, comprese le sadiche leggi tribali che regolano ancora oggi (e potrebbe sembrare un arcaico anacronismo se non rappresentassero invece la terribile realtà del quotidiano) la vita anche di quei paesi cosiddetti (in)civili del medio oriente che ci ostiniamo a considerare “amici” e ci rifiutiamo di mettere all’indice come sarebbe invece necessario fare, totalmente asserviti come siamo al fascino perverso del petrolio del quale non possiamo (vogliamo) fare a meno e per il quale accettiamo passivamente ogni efferatezza.
Se il quadro è corale, e in città sta accadendo quello a cui ho già accennato sopra, tutto poi gira (e mi ripeto) intorno alla storia della famiglia di Kidane, un allevatore tuareg che vive con la moglie e la figlioletta di 12 anni in una tenda tra la periferia di Timbuktu e il deserto del Sahara, la cui serenità è spezzata da una lite con un pescatore che gli ha ammazzato la sua vacca “GPS”.
Sarà proprio questo fatto dal prevedibile, infausto esito, a creare l’innesco per una serie di avvenimenti altrettanto drammatici e tali da mettere in evidenza le differenze del rapporto con la fede fra chi accetta con umiltà il giudizio di Allah (Kidane) e chi invece, più che credere alla divinità ambisce superbamente a sostituirsi ad essa nel giudicare gli uomini (i jihadisti) attraverso le incongruenze giuridiche di una legge coranica tutt’altro che adeguata ai tempi (tanto che si potrebbe tranquillamente ribadire che le religioni, soprattutto quando sono interpretate con tanta arretratezza e fanatismo e interferiscono pesantemente sullo Stato, non solo sono l’oppio dei popoli, ma anche una vera e propria palla al piede che, più che impedire, vieta l’emancipazione del pensiero e del vivere civile verso la modernità).
Pensato dunque inizialmente come un documentario sulla storia di una coppia vittima della furia dei jihadisti (dichiarazione del regista rilasciata a Cannes) si è poi trasformato invece (e per fortuna) in questa straordinaria "rappresentazione mediata", a mio avviso molto più efficace e coinvolgente perchè sorretta dall'afflato (artistico) dell'approccio anche poetico (il film contiene molte suggestive immagini di straordinaria bellezza anche formale, che non sono però al servizio di un estetismo referenziale fine a se stesso, ma vengono utilizzate invece per mettere meglio in evidenza gli stridenti contrasti che il film intende denunciare).
L’opera si concretizza dunque nella prioritaria esigenza di affrontare un tema che sta spaccando l’Africa, l’universo islamico (e sempre di più, anche il mondo intero).
Sissako, con rara ed efficace precisione, è dunque riuscito a fissare il suo sguardo su una zona “simbolo” che suo malgrado è stata fra le prime a dover fare i conti con questa piaga, quando ormai Al Qaeda sembrava essere (quasi) sconfitta e si sottovalutavano questi “piccoli”conflitti a torto ritenuti locali, compresa la tragedia della Siria che non ci interessava proprio, e a darci una lettura delle cose fatta dall’interno: il suo infatti non è un film anti-islamico, ed è bene chiarirlo subito (e il discorso che l'imam della Moschea locale fa al neofita jihadista, ne costituisce la prova più evidente, soprattutto nel passaggio in cui afferma che anche lui ha la jihad nel cuore, intesa però come ricerca interiore, non come strumento di dolore e sofferenza altrui) ma è proprio per questo ancora più importante, come vedremo in seguito, soprattutto per noi che abbiamo solo una conoscenza “di riporto” (e non sempre del tutto attendibile) delle cose.
L’impeccabile messa in scena a “incastri” che sembra voler riportare alla luce la struttura, la forma e il senso di molti grandi capolavori del passato, contiene a mio avviso anche alcune tracce che potrebbero richiamare alla mente - proprio nell’assenza assoluta di didascalismo - persino qualcosa del nostro Rossellini(in particolare la sua visione “didattica” e il trattamento delle storie “multiple” alla base di un film come Roma città aperta): appassionato e visivamente bellissimo, Timbuktu è dunque un grido che colpisce al cuore, il drammatico ritratto del paese dell’infanzia del regista – il Mali appunto - le cui ricche tradizioni umane sono state così pesantemente calpestate da un fanatismo che arriva da lontano: “Sono nato in Mauritania, ma mi sono ben presto trasferito in Mali con la mia famiglia – è lo stesso Sissako a dirlo – e mi preoccupa moltissimo ciò che sta accadendo in quella terra e che si sta allargando a macchia d’olio, perché sono un cittadino del mondo: che sia cresciuto lì è per me un fatto davvero secondario. Trovo infatti 'spaventoso e inaccettabile a prescindere da quella circostanza personale, che un gruppo di persone sempre più vasto e organizzato, si sia posto l’obiettivo di trasformare con tanta efferatezza e un seguito in costante espansione, la società islamica, che per secoli è stata tollerante e gentile, in qualcosa di così intollerante e brutale".
Con il suo stile lento e piano fatto di silenzi e di sguardi più che di parole, Sissako ci racconta dunque (e universalizza) ciò che è accaduto e sta accadendo in un angolo insanguinato dell’Africa, e ci invita a tenere bene a mente che il male può annidarsi ovunque, anche nei luoghi più tranquilli e “pacifici” della terra: si palesa o arriva all’improvviso, cambiando inesorabilmente il corso delle cose…. Nessuno è al sicuro, insomma, ed è molto meglio prevenire anziché provare a chiudere la stalla quando ormai i buoi sono scappati.
Non importa uccidere la gazzella… basta sfiancarla
Sissako ha quindi scelto di non essere il narratore di un semplice - anche se tragico - fatto di cronaca successo in un paese che non fa notizia e non produce mobilitazioni internazionali. Al contrario, si è posto invece un obiettivo molto più ambizioso, quello di darci un quadro più ampio e documentato della situazione organizzando un racconto che invita alla riflessione. Ci è riuscito perfettamente proprio grazie alla struttura del suo film che – al fine di rendere più chiaro il suo pensiero - procede per contrapposizioni, e si articola praticamente sul piano di una continua alternanza del montaggio davvero di straordinaria efficacia (a Nadia Ben Rachid il merito del risultato): da una parte il villaggio sottoposto alla dura legge della sharia imposta da uomini (o presunti tali) che in una babele di lingue (tuareg, arabo e francese) atte ad indicarne le differenti provenienze, e senza altra radice comune che non sia quella dell’integralismo, impongono norme capestro e assolutamente vessatorie – il mancato rispetto delle quali sarà punito con frustate, incarcerazione o addirittura con qualcosa di più terribile e definitivo) che condizionano anche la più quotidiana delle attività (lavorative e ricreative) poichè proibiscono di fumare, di giocare al calcio, di cantare, di ballare o di affacciarsi alla finestra e infieriscono soprattutto sulle donne costrette ad indossare guanti e calzettoni; dall’altra invece, un incredibile, fiabesco paesaggio fuori dal tempo immerso fra le maestose dune del deserto, che incornicia la vita di una famiglia (quella di Kidane) che conosce l'armonia e la fedeltà (quella vera e profonda) nelle relazioni parentali e con la divinità.
E’ il sistema migliore per farci percepire la distanza abissale esistente tra questi due inconciliabili mondi, fisicamente così vicini, ma al tempo stesso (culturalmente parlando) anni luce lontani l’uno dall’altro e trasfigurare il tutto in quel preoccupato e preoccupante grido di allarme a cui accennavo prima, lanciato a un Occidente spesso distratto e incline a pensare che in fondo l'integralismo sia una (legittima?) rivolta contro i secoli di colonialismo subìti, e che nasca di conseguenza dall'interno delle varie realtà nazionali (e in quel contesto si consumi e si esaurisca). Il regista riesce a smontare molto bene questa erronea concezione ponendoci di fronte a una verità ancora più brutale, e fornendoci di conseguenza l’inconfutabile conferma “provata” che si tratta invece di un’oppressione che ha alle spalle un ben più pericoloso e ambizioso progetto studiato a tavolino. frutto di una follia ideologica che prende a pretesto una supposta fede per sottomettere intere popolazioni e provare – come è già accaduto in passato - a colonizzare così il mondo intero, una forma cancerogena che si sviluppa e dilaga come una metastasi ormai difficile da contrastare per il ritardo con cui ne abbiamo preso coscienza. Io che ho una certa età, forse non vedrò le terribili conclusioni, le fasi terminali di questa perniciosa “malattia”. Credo però che se non ci sarà un cambiamento di rotta, forse davvero non resta molto altro da fare dinanzi a queste belve assetate di sangue infedele, se non quello di provare a fuggire a gambe levate correndo a più non posso, come fa la gazzella del film, sperando di non stramazzare esausti senza essere riusciti a trovare un rifugio sicuro per riprendere almeno un po’ di fiato, perché è proprio questo quello che vogliono: “sfiancarci” (e per il momento sembrano riuscirci davvero con ragguardevole efficacia).
Tornando al film, le diversità di cui parlavo poco più sopra, si estrinsecano molto bene anche nella forma scelta dal regista per la sua narrazione multipla. Si rendono evidenti proprio nell’utilizzo che viene fatto degli spazi e degli attori, nei ritmi differenziati imposti alle singole scene. Quando l’occhio della macchina da presa è puntato su Timbuktu infatti, tutto è più frenetico e movimentato, segnato dai frequenti spostamenti dei miliziani nelle vie della città e dal loro essere una presenza prevaricante, decisamente aliena rispetto al contesto generale. Quando invece ci si sposta nel deserto, i ritmi diventano più blandi (soprattutto quando viene ripresa la tenda di Kidane con l’uomo, la moglie e la figlioletta distesi sui tappeti a chiacchierare teneramente): non è che qui la cinepresa rimanga fissa, tutt’altro, ma è la pacatezza delle riprese a farla da padrona nella loro lenta alternanza di campi lunghi e primi piani che lambiscono i corpi e privilegiano l’intensità di sguardi che ben sottolineano e trasmettono la serenità e l’amore che unisce la famiglia.
Lo stesso andamento “lento” viene riservato pure alle sequenze dedicate agli abitanti della cittadina, ripresi quasi sempre in posizioni statiche, di attesa (seduti a pregare nella moschea o a vendere prodotti al mercato) che non si modifica - se non per la diversa drammaticità delle situazioni - nemmeno nelle scene più brutali delle punizioni e delle esecuzioni.
Sissako giustamente nulla risparmia delle brutalità delle esecuzioni o delle punizioni corporali, ma senza mai pigiare il pedale verso il grand guignol: se predilige comunque in quelle scene la rappresentazione realistica delle cose documentando impietosamente la realtà (le teste martoriate dei lapidati, i corpi dei fustigati), riesce comunque a smorzarne la portata “disturbante” con altrettanti squarci lirici di forte presa emotiva (i notturni lunari, le dune assolate, l’incrociarsi degli occhi di Kidane con quelli di sua moglie Satina, lo struggente finale), o addirittura a sorprenderci quando, cambiando totalmente registro, imprime all’andamento della storia (ma senza mai allentare la tensione) toni intrisi di una sottile ironia (le sequenze in cui gli stessi jihadisti che proibiscono il gioco del calcio, si lasciano poi andare ad accese discussioni sulla Francia di Zidane, o ci fanno vedere uno di loro che fuma di nascosto, fino a quelle davvero surreali della “scuola” guida nel deserto che ci raccontano quanto anche loro subiscano, e siano di conseguenza dipendenti dal fascino delle automobili, per non parare poi di quelle che mostrano il loro rapporto con i videotelefonini che hanno sempre in mano e con cui amano riprendersi o filmare le proprie vittime per postarle poi in rete).
Se vogliamo poi, il film è anche un inno alla donna (il bersaglio primario di ogni estremismo), e non solo per lo spazio che il regista ha inteso riservare alla figura altrettanto singolare della pazza (non a caso affidata alla carismatica presenza della grande danzatrice Ketty Noël), l’unica alla quale sia concesso a causa della sua malattia mentale, di cantare, danzare, fumare e andare in giro senza velo, ma anche e soprattutto, perché qui sono le donne a opporre una pur minima resistenza alle violente prevaricazioni integraliste (c’è chi rifiuta, in nome del buon senso, di mettersi i guanti per non far vedere le mani nude, chi canta nonostante il divieto e chi non accetta passivamente il matrimonio imposto- C’è soprattutto chi, come Satima, mostra i sui lunghi capelli suggerendo al jihadista che la rimprovera per questo suo atto di “insubordinazione”, di voltarsi da un’altra parte se tale vista gli dà fastidio).
Molti i momenti che rimangono impressi nella memoria: l’opulenza della natura incontaminata magistralmente immortalata da una fotografia (di Sofiane El Fani) che ne esalta la struggente bellezza; le incursioni improvvise del giovane (misterioso) motociclista portatore d’acqua; la visione (panoramica o a distanza ravvicinata) del fiume in cui si consuma la tragedia fra Kidane e il pescatore; la macchina da presa che indugia sul corpo della vacca uccisa; la straordinaria, poetica sequenza della partita di calcio mimata da alcuni ragazzi che la improvvisano “giocando” senza che ci sia il pallone (che rimanda all’Antonioni di Blow Up) o la sequenza di quel giovane adepto al quale è stato richiesto di dare testimonianza in video della sua conversione religiosa in cui il ragazzo racconta con trasporto quanto amasse prima la musica rap, ma non riesce ad essere altrettanto credibile (e ancor meno convincente) quando deve esporre le banalità dogmatiche e recitare slogan propagandistici connessi con la sua nuova “fede” davanti a una telecamera, e che di fronte alle sollecitazioni (intimidatorie), abbassa imbarazzato la tesa guardando il pavimento. Su tutte però nel mio ricordo, si staglia netta quella del …chiamiamolo “corteggiamento”?…. a Satima la moglie di Kidane, da parte di un jihadista, e dove è proprio la cinepresa, collocata in posizione strategica, a fare la differenza: mentre l’uomo si esprime ambiguamente e già si avverte tutta la portata del suo insano desiderio, questa riprende i personaggi, ma offre contemporaneamente anche la visione delle ondulate dune che li circondano che sembra voler accarezzare quasi che fossero la rappresentazione (freudiana?) delle forme del corpo nudo di una donna.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta