Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
Dopo due lustri di sfarzi, epiche wuxia e coreografie luccicanti per manieristi occidentali, il cinema di Zhang Yimou (e della fedele Gong Li) ritorna a casa, a bagnare i piedi nel classicismo. E nella Cina degli anni 70, dove un professore scomodo è costretto alla clandestinità per un decennio. Fallito, per colpa della figlia collaborazionista, un primo riavvicinamento con la famiglia, l’uomo viene successivamente riabilitato, ma la moglie, colpita da una sorta di amnesia selettiva, non lo riconosce più. Mélo classico, quanto ingessato e calligrafico, Lettere di uno sconosciuto è un film sulla memoria e sulla politica come corruttrice dell’animo, morte dei sentimenti e delle ambizioni artistiche. La prima parte (più vicina a un lungo incipit che a un atto vero e proprio) documenta tutti i danni dell’apologia di regime durante la Rivoluzione culturale, ma il grigiore e il conformismo, l’enfasi dei gesti e dei dialoghi (penalizzati anche da un doppiaggio ingeneroso) sono politicamente smussati, affogati nella caricatura. La dimensione intima, che indaga invece le ragioni di una rimozione e le assurdità delle vicende, ha i toni di una dramma da camera tutto sguardi e recitazione sommessa, dove la parola è un inutile orpello e la metafora funge da monito contro la tentazione dell’oblio. Ma è tutto in superficie, trasparente, privato di ogni impeto espressivo: un cinema stanco, dal fiato corto, mai capace di affrancarsi dalla retorica.
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