Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Si è fatto un gran parlare di Haneke per questo film del giovane Ostlund, ma a ben vedere l'eredità della propria cine-storia nazionale resta forse la nota dominante. L'esistenzialismo tormentato di Bergman rivoltato nell'ironia stralunata e sottilmente feroce di Roy Andersson costituiscono l'asse portante di un'opera disomogenea, spesso incerta, ma non priva di spunti interessanti. Il tema del film non è tanto la crisi coniugale (c'è affetto fra i due protagonisti e nessuna tentazione di tradimento) quanto questioni morali che pongono una sorta di barriera fra uomo e donna: come in Antonioni, che resta una referenza ineludibile in questi casi, è la donna a recepire con più sensibilità i sintomi di una crisi, a fronte dell'uomo che invece tende sempre a negare l'evidenza e a mettere la polvere sotto il tappeto. Nel dibattere di questioni relative all'istinto di sopravvivenza contrapposto a quello di sacrificio per i propri cari, il film mostra però il suoi limiti, diventando vacuo e lezioso, oltre che inutilmente strascicato nei tempi (due ore di running time sono troppe per un canovaccio del genere). Inoltre, la compenetrazione fra realismo psicologico e metafora, fra dramma e sarcasmo, fra empatia e distacco non è del tutto risolto: ma sono cose che, registicamente, si perfezionano col tempo. Infine, non giova alla riuscita complessiva lo scadente livello del comparto attoriale.
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