Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Il tempo del sonno, quello silenzioso della neve. La routine delle azioni famigliari. Il rumore delle parole. L’assordante silenzio dopo una valanga. Manca poco per essere un capolavoro, a quest’opera che ha a che fare più con la poesia, che con il cinema, o almeno con quel genere di cinema a cui si è troppo abituati. Perché la sceneggiatura di questo film è poesia allo stato puro.
E’ una poesia che racconta il quotidiano esserci di una famiglia. Nel caso di Forza maggiore si tratta di una famiglia svedese, con Tomas, sua moglie Ebba e i loro due bambini. Loro sono in vacanza per una settimana di sci sulle Alpi francesi. Il sole splende, la vista è spettacolare, ma durante un pranzo, sulla terrazza dell’albergo, una valanga improvvisa sembra sul punto di travolgere i villeggianti. Mentre la gente fugge terrorizzata e il panico paralizza Ebba e i figli, Tomas reagisce in un modo che sconvolgerà il suo matrimonio e lo obbligherà a fare i conti con se stesso e a lottare duramente per riconquistare il suo ruolo di padre e marito.
Cosa accade quando durante il perdurare di una vita insieme qualcosa si abbatte e annebbia lo spazio e il tempo fra le persone? Come si viene fuori, dopo che una valanga ha travolto le vite di uomini e donne che, fino ad allora, sembravano avere un rapporto puro e pacifico, come può esserlo il colore e il candore della neve?
La sospensione, l’essere sorretti da un qualcosa che da un momento all’altro può cascare, è ciò su cui si fonda qualsiasi rapporto. Marito-moglie, amato-amante, figlio-madre, figlia-padre. L’esigenza di essere soli, non lasciando la doppia impronta sul bianco della neve diventa il pretesto per avvertire la mancanza di chi, dall’altra parte, in continuo distacco, per mezzo di rette parallele, resta alla giusta distanza. Pur amante. Anche se amata. Il tutto, in un clima e in una natura libera ma continuamente minacciosa.
Il racconto, senza il bisogno delle parole, perché i segni dei discorsi sono stati soffocati sempre più dalla tecnologia, che ormai impedisce qualsiasi dialogo, distruggendo ogni spazio e tempo, intorno alle vite delle persone, crea il paradosso di “salvare il proprio IPhone e i propri guanti” nella possbilità che ci si scordi delle persone, di cui ci si dice interessati. E allora, quanto vale la vita dell’altro, rispetto alla propria? Davvero ci si ama a tal punto da far diventare l’altro/a il mio interesse, o piuttosto ci si calpesta la vita gli uni degli altri, compresa quella dei figli?
Forza maggiore è molto polanskiano e a tratti rimanda al miglior Fincher. Gli spazi, fra porte che non si aprono, ascensori ermetici, corridoi interminabili e con orecchi e occhi che spiano e ascoltano, mettono in atto una continua tensione, anche quando tutto sembra proseguire normalmente. E pensare che anche il modo di raccontare tale tensione avviene attraverso le lunghe inquadrature a macchina fissa
Il regista svedese, Ruben Östlund, è un grande autore, ne avevamo avuto idea già attraverso il bellissimo Play (2011). Con questa sua nuova opera fa della suggestione l’essenza del suo cinema, riuscendo a raccontare la storia di due persone, per introdurci in un sistema-mondo dove anche la vita al di fuori del propria esistenza è continuamente compromessa: uomo-donna, genitore-figlio, amico-nemico. Intanto, la sofferenza di chi, da piccolo, riesce ad essere talmente grande da inghiottire ogni forma di dolore, sopportando anche la sembianza di qualcosa che possa assomigliare allo stare bene, a differenza di chi, pur avendo le responsabilità di adulto, si fa aspettare. Perché fra le tante letture di questo film, ce n’è una che davvero ha una forza superiore, secondo la quale, anche quando gli adulti cercano i figli, questi ultimi, pazienti, sono sempre gli unici pronti all’attesa, che qualcosa ritorni. O che riemerga da sotto quei ghiacciai che si sperano non sempre eterni.
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