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Per la patria

Regia di Abel Gance vedi scheda film

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La recensione su Per la patria

di EightAndHalf
9 stelle

 

Il montaggio ci parla, e vive eterno invisibile compagno a costituire l’esoscheletro del puro movimento. Questo il risultato della perizia tecnica con cui è stato realizzato J’accuse nel lontano 1919, immortale e pressoché dimenticato capolavoro di Abel Gance, un violentissimo ed effervescente atto d’accusa nei confronti della guerra e di come essa penetri nell’intimità degli esseri umani, con la gigantesca cattiveria che si addice all’indifferenza cosmica della natura, o all’agghiacciante freddezza del caso, che incrocia storie di uomini e donne e le intreccia rendendone contraddittori i rapporti e i reciproci legami. Abel Gance è un vero e proprio maestro, con J’accuse ce lo dimostra, nonostante il tratto edificante delle sequenze più lente e contemplative. L’apparente ingenuità del cinema muto nasce tutta dalla grande attenzione nei confronti dell’espressione facciale dell’attore, ancor più che dalle tematiche, e J’accuse è il tipico film che oggi potrebbe essere accusato per la sua grande volontà di comunicare, e di farlo in maniera esplicita. La verità è che però non c’è bisogno di contestualizzare l’opera in quel periodo, e che questo messaggio che pure una storia o un’opera d’arte può avere il diritto di raccontare viene filtrato attraverso un’estetica e uno stile che rasentano la follia (e il genio). Alla maniera di uno Stroheim francese, Abel Gance dimostra in più momenti il gigantismo del suo progetto cinematografico, costruendo una giostra di personaggi indimenticabili su cui scaricare una storia profondamente melodrammatica ma anche significativa, vista la parvenza universalizzante dei loro profondissimi drammi. Ricorrendo al tema della guerra e adattandovi l’astio e l’insofferenza che il tedesco Richard Grelling aveva trapiantato nel suo scritto del 1915 contro l’imperialismo tedesco, Gance fa una vera e propria lezione di cinema, inserendo nel suo capolavoro immagini fortemente sperimentali, vicine alla pazzia virtuosistica, con sovrimpressioni, giochi estetizzanti di colori e chiaroscuri (quasi a rievocare la materia pittorica), capricci narrativi straordinari e potentissimi (il ritorno alla vita dei soldati morti) e frequenti inserti poetici in cui il protagonista, che legge alla madre le proprie liriche, evoca nella mente delle immagini di assoluta pace e tranquillità, riquadri colmi di rilassata quiete e che non faranno altro che assumere un significato sempre diverso nel succedersi degli eventi e delle scene.

 

 

Jean Diaz si innamora di Edith, donna sposata al soldato François, e questo genera in quest’ultimo un ben comprensibile fastidio.Non appena scoppia la guerra, entrambi vanno al fronte, Jean come sergente e François come suo sottoposto, andando inizialmente ad alimentare quell’attrito che intercorreva fra i due uomini. Saranno poi convinti ad avvicinarsi l’un l’altro al fronte di una terribile tragedia: Edith viene rapita da alcuni soldati tedeschi venuti a saccheggiare il loro paese natìo. Definitivamente scomparsa, i due sembrano decidere di vivere nel ricordo, fin quando non avviene l’imprevedibile, e l’odio sembra ricominciare a germinare. J’accuse, nella sua versione più lunga (e più fedele alle intenzioni di Gance) rappresenta una vera e propria epopea, una lunghissima odissea di vinti e di sconfitti, in cui nessuno si salva, neanche le gentili innocenze dei bambini, corrotti fino allo stremo dalla terribile esperienza di un mondo in guerra. Gance non si concede nemmeno un tempo morto, e a fronte della possibilità di non catturare subito l’attenzione dello spettatore, innesta fra una sequenza e un’altra (con fare quasi anarchico  ed estremamente innovativo) curiosissime sequenze in cui a reiterarsi è la danza macabra di alcuni scheletri che in sovraimpressione evocano la morte e il suo carattere beffardo. Con il procedere degli eventi, il tono si fa sempre più tragico e spiazzante, concedendosi lampi di tenerezza e oscuri burroni di brutalità. E’ anche un discorso sul sogno cinematografico, quello di Gance, soprattutto quando François comincia a raccontare storie visionarie ai suoi compagni soldati, e Gance, come voce narrante, decide di non mostrare figurativamente quei racconti perché “gli occhi incapaci di bene interpretare ciò che si addice al fango dell’inferno”. Così, in continui giochi di mostrato e non mostrato, con impressionanti straccetti impressionistici (l’indimenticabile gufo), e l’intrecciarsi di reali filmati del campo di battaglia (esplicitamente evidenziati dall’apposita didascalia) con squarci onirici sarcastici o inquietanti (l’apparizione del Gallese come il procedere forsennato dei soldati al suono (visivo) degli scheletri danzatori), Gance definisce e innalza al rango di vera Poesia la cinetica della settima arte, facendola danzare sotto ai nostri occhi oggi ancora increduli e scandalizzati.

 

 

Il lavoro sul montaggio, come già suggerito, è formidabile: così come nella celebre sequenza del burrone de La roue, Abel Gance e i tecnici addetti impiegarono moltissimo tempo per riorganizzare l’ordine dei fotogrammi, al fine di ottenere un film dai toni profondamente variegati e misti, dotato di improvvisi lampi di splendore lancinante così come di lunghe carrellate di disperata schizofrenia, fino al terribile e catartico miracolo finale, in cui i soldati tornano in vita e vanno a vedere se la loro morte è servita a qualcosa indagando su cosa i loro cari ancora vivi hanno fatto durante la loro assenza. A sottolineare il carattere affabulatorio del sogno cinematografico (e dell’arte tutta: l’immagine di Jean impazzito che riunisce tutti gli abitanti del paese a casa sua ricorda da vicino An Experiment on a Bird in the Air Pump di Joseph Wright of Derby) è proprio il finale, con il suo imprevedibile twist e il continuo preannuncio di una tragedia che sembra non avvenire, ma che invece si sta trascinando stancamente sulle spoglie di un’Europa decaduta.

 

 

Cosciente della Storia e delle sue infinite ridondanze, nonché consapevole di quanto l’arte vi abbia influito, Gance sfrutta il carattere efficacemente divulgativo di un binomio verbale come le parole J’accuse di zoliana memoria per convincerci di come il sogno e l’illusione non stiano intorno all’uomo, ma nell’uomo stesso, e in quello che di Bellezza l’essere umano può creare in un mondo di indifferenza e di abominio. J’accuse è un film estremo e indimenticabile, di eccezionale forza.

 

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