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Il giardino delle parole

Regia di Makoto Shinkai vedi scheda film

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La recensione su Il giardino delle parole

di OGM
6 stelle

Una storia anomala, tanto da sembrare vera. Una storia non banale, e dunque probabilmente inventata. La scarna disarmonia della trama freme di un sentimento imperfetto. Non immorale, ma semplicemente indefinito, pieno di timorosa fantasia, ed assetato di una profondità che non è alla sua portata. L’amore tra un quindicenne aspirante creatore di scarpe ed una donna emotivamente instabile, reduce da un matrimonio fallito, è uno spettacolo triste ed imbarazzato, così consapevole della propria irrealtà, da impedirci di abbandonarci al sogno. Anche la poesia viene solo sfiorata, furtivamente toccata con il sobrio minimalismo di un ermetico haiku. Sono pochi i versi che riescono a prendere il volo. Questo film è ancorato alla terra, a quella opprimente e fredda che è battuta dalla pioggia. Takao e Yukino si incontrano clandestinamente, in un giardino pubblico, solo quando il tempo è brutto. Il sole è nemico di questa relazione che appare tenace nel non volersi esprimere. Il ragazzo, che, a tratti, interpreta la voce narrante, la descrive come se fosse un fatto esclusivamente interiore, un episodio del suo io che non capisce il mondo, eppure cerca disperatamente di crescere. Il futuro è, per lui, un tempo che può appena intravvedere, e che immagina segnato dalla fuga, dalla separazione, dalle scelte che allontanano definitivamente le persone a cui sente di appartenere. Sua madre e suo fratello se vanno di casa, per andare a vivere con i rispettivi compagni. A lui resta solo la speranza di potercela fare da solo, a proprio modo, trovando nel prossimo un appiglio per intraprendere un nuovo cammino verso l’ignoto. La donna impossibile è forse un buon punto di partenza, poiché gli offre la garanzia di  un percorso originale, insieme alla confortante prospettiva di non poter arrivare lontano. Questo anime vive nell’incertezza delle mezze misure, dei sottintesi che nessuno sente il bisogno di rendere comprensibili. Le parole, in questo caso, sono gli sporadici spazi pieni in un tessuto sottile e bucherellato, remissivo e docile  sia alla trascuratezza dei troppi silenzi, sia all’importuna invadenza dei toni da melodramma. La stoffa leggera del racconto è lasciata in balia di un vento incostante, a volte disordinato e indeciso, a volte avventatamente impetuoso. È l’arieggiare un po’ sgraziato di una bellezza acerba, che non è in grado di dire tutto, e spesso dice poco e male. Il film di Makoto Shinkai, già autore de Il viaggio verso Agartha, fa propria la fragilità dell’assurdo, e la trasforma in una sfuggente e friabile delicatezza. Un discorso velatamente infantile si sgretola in briciole dolcissime, che la ragione, però, spazza subito via. 

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