Regia di Richard Glatzer, Wash Westmoreland vedi scheda film
Produzione indipendente di classe e soprattutto grande veicolo per una prova d’attrice esemplare, Still Alice, prima di essere un film sulle ripercussioni d’una malattia imprevista sull’economia familiare della malata, è l’one woman show di Julianne Moore, finalmente papabile agli Oscar dopo il clamoroso scippo subito ai tempi di Lontano dal paradiso. Nel ruolo della professoressa di linguistica cinquantenne alle prese con una forma precoce di Alzheimer, la Moore fa il suo mestiere con straziante potenza minimalista, cedendo raramente agli eccessi o alle smancerie che un personaggio del genere rischiava di suggerire.
Il film funziona perché lo sguardo scelto è dalla parte di lei se non proprio dentro di lei: il titolo italiano del romanzo da cui è tratto il film è Perdersi e pare proprio questo smarrimento la chiave di lettura ideale per decifrarne la sua quieta inquietudine. Quieta in una concezione formale, perché rinuncia all’effettismo greve o sdolcinato che molte situazioni proponevano (pensiamo alla lancinante scena dell’incontinenza); inquietudine perché nega dapprincipio e con fermezza la possibilità di una speranza, nonostante simboli come il mare aperto e la farfalla che vive poco ma bene o la parafrasi ispirata da Cechov.
È, a suo modo, un film coraggioso per ciò che dice, con questa calata negli abissi di una malattia infame per chi ha fondato la propria esistenza sulla conoscenza e sulla comunicazione. Si lascia apprezzare soprattutto per questo tono discreto più che per una regia tutto sommato lineare nel suo scorrere mesto e misurato e che si affida alla bravura del cast, in cui accanto all’eccellente Moore c’è la consumata ed affidabile esperienza di Alec Baldwin. Film struggente e dolorosissimo, eppure controllato ed equilibrato, capo d’opera per Julianne Moore.
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