Regia di Richard Glatzer, Wash Westmoreland vedi scheda film
Senza sovrastrutture, asciutto e schietto, “Still Alice” è un capolavoro di minimalismo narrativo. La storia riguarda e tratta esclusivamente il personaggio di Alice Howlands (una Julianne Moore da brividi), sconvolta dalla notizia di un Alzheimer precoce. Cinquant’anni per mettere da parte certezze e all’improvviso la consapevolezza che quanto accumulato nel lavoro, nella vita comune, le amicizie, i viaggi, ma soprattutto il quotidiano, a poco a poco non esisteranno più. Disperati e logoranti i metodi di Alice che, consapevole che non c’è modo di scampare ad un inesorabile declino psicofisico, rammenta alla se stessa del futuro quante più informazioni e nella maniera più metodica possibile; nel personaggio di Alice, seppur con patologie, moventi ed obiettivi differenti, sembra di rivedere il Leonard Shelby di “Memento” (Christopher Nolan, 1999).
Il dramma della disabilità affrontato con straordinario realismo, un tatto ed una consapevolezza derivata dall’esperienza diretta della neuroscienziata Lisa Genova, autrice del libro “Perdersi” del 2007 da cui la buona sceneggiatura è tratta. ll film, per la regia di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, è un inesorabile binario unico, che non prevede scambi o rallentamenti, e che viaggia verso un finale struggente: solo Alice, mentre sullo sfondo ci sono il lavoro, le tre figlie, l’amorevole marito, ma in primo piano solo Alice... Perché è proprio vero, per chi è colpito da disabilità, che anche se la famiglia è coinvolta profondamente nei processi di cambiamento, la malattia rimane di chi ce l’ha.
Il punto di vista tragico e disperato della protagonista è sottolineato dalla scelta registica di seguire spesso silenziosamente Alice nel suo incedere; la camera le è dietro, la osserva così come fa lo spettatore; la protagonista esperisce la malattia, ne esamina gli effetti, prova a respingerla con tutti i mezzi possibili, mentre lo spettatore, attraverso un punto di vista presente ma non ingombrante, prova a capire, assieme alla protagonista, ed a scoprire con lei le odiose implicazioni della sua nuova condizione.
Unica nota dolente, una Kristen Stewart sempre uguale, come se stesse recitando Twilight 5: stesso trucco, stesso viso sofferto, se vogliamo anche stesso personaggio tormentato (e di questo non le si può far colpa)… Probabilissimo Oscar alla Moore, che interpreta il personaggio principale in maniera intensa e commovente, stentorea e fragile al contempo, come gli alti e bassi degli umori, come i momenti bui alternati agli (effimeri ma sentitissimi e necessari) sorrisi.
Toccante. È l’unico aggettivo che viene in mente al termine della visione.
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