Regia di Richard Glatzer, Wash Westmoreland vedi scheda film
E' vero, è una tematica molto ghiotta per quei furbi giocattoloni strappalacrime e raccattaconsensi che ancora non stancano gran parte del pubblico cinematografico, ma ciò non vuol dire che il tema della malattia degenerativa (peggio ancora, forse, della letale) debba divenire un tabù all'interno del Cinema di qualità. Alice, aitante e ambiziosa cinquantenne in carriera, insegnante di linguistica e di scienze delle comunicazioni, subisce la diagnosi di un morbo d'Alzheimer precoce, trasmesso per via ereditaria. Inizia così per lei una disperata arrampicata sugli specchi per cercare di far sopravvivere ciò che rimane di lei (l'ancora Alice del titolo). Ma questo è soprattutto all'inizio; in seguito, già quando non sembra più nutrire speranze, diventa capace anche delle decisioni più drastiche.
Una Julianne Moore stratosferica per una pellicola quieta e delicata che non strafà e fa riscoprire l'affetto umano utilizzando come strumento un'occhiata sulla caducità della memoria. Il dramma del singolo, di Alice, diventa dramma dello spettatore che non fa fatica ad empatizzare con la donna, non per una tendenza accalappiatrice né con facili pietismi, ma con un'immersione quasi ostinata nei ritmi lentamente distrutti della di lei quotidianità. Il morbo le divora l'identità, le fa subire una metamorfosi in cui sono lo spaesamento e la confusione ad avere la meglio, e nulla può contro di essi il suo approccio razionale alla vita e l'affetto infinito per i propri cari. Nonostante i dissapori, nonostante i drammi del passato, Alice è una donna normalissima, senza eccessivi traumi; ne ha passate tante esattamente come chiunque altro. Eppure il destino la fa affondare nell'oblio dell'Alzheimer tutt'ad un tratto, con lo sfocamento del suo mondo e di coloro che la circondano. I due registi, Glatzer e Westmoreland, inseguono la loro protagonista facendoci penetrare nelle sue nuove difficoltà, tramite artifizi narrativo-stilistici davvero avvolgenti, riuscendo a fermarsi e ad eseguire uno stacco di montaggio subito prima del sentimentalismo, subito prima che Alice diventi una martire: ci fanno sentire e vedere le stesse incertezze di Alice, i suoi stessi tentennamenti, dosando alla perfezione le ellissi temporali, saltando per esempio avvenimenti così da non farceli vedere, e da farci (non) capire cosa Alice non ricorda; facendoci esplorare con Alice una casa alla ricerca di un bagno, benché Alice dovrebbe ben sapere dove si trova; affievolendo i ricordi della sua infanzia, facendoceli apparire come appassite sequenze amatoriali in cui i volti si confondono nel movimento; straniando definitivamente quando Alice guarda un video di lei stessa che le parla da un passato di maggiore sanità ed equilibrio, e sembra essersi sdoppiata, sembra già morta.
Vivere Still Alice vuol dire percepire le trasformazioni della psiche della protagonista sentendoci presto sperduti anche noi. L'empatia che parte abbastanza presto, pur localizzando la "simpatia" nei confronti di un personaggio particolare, finisce per simboleggiare, più in generale, la profonda fragilità di ciò che non possiamo controllare, e che si trova negli anfratti della mente come materiale astratto e impalpabile che facilmente potrebbe scomparire. La presenza dei familiari (Alec Baldwin, Kristen Stewart e altri) diventa di consolazione anche per noi, vittime partecipi di una lenta (a dire il vero svelta) degenerazione, tanto che usciamo dalla visione relativamente storditi, oltre che profondamente commossi. Il dramma di Still Alice riesce ad essere equilibrato e ponderato nonostante la rovente materia narrativa, e stimola un dibattito sull'effettiva fallacia dei nostri pensieri e sulla debolezza dei rapporti umani di fronte all'imponderabile e all'insolubile. Con lampi di illusione e di speranza che si affievoliscono pur sopravvivendo in una selva di oscurità sempre più fitte.
Lancinante ed atroce, oltre che abbastanza disorientante, in un certo qual senso anticonformista senza svolazzi né ambizioni (anch'esse possibilmente degenerative e degeneranti), Still Alice può sembrare il classico prodotto che fa riflettere, ma vista la sua profonda capacità di mantenersi particolare, antispettacolare, intimo e onestissimo, diventa vera e propria esperienza da assorbire, nel suo andamento quotidiano e "borghese", con quel suo fare impalpabile che sembra proprio la scritta del titolo finale, appannata dalla nostra piccolezza di esseri soli, nel "relativo" nonsense della parola amore.
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