Regia di Jean-Luc Godard, Ursula Meier, Sergei Loznitsa, Cristi Puiu, Aida Begic, Angela Schanelec, Isild Le Besco, Kamen Kalev, Vincenzo Marra, Leonardo Di Costanzo, Vladimir Perisic, Marc Recha, Teresa Villaverde vedi scheda film
Sarajevo si guarda sospirando. Quel fumo che si solleva intorno ai visi assorti è fatto di immagini mentali sfumate, diluite dal ricordo, dalla nostalgia, dal dubbio che circonda ciò che è stato, dalla paura che riguarda ciò che sarà. Il discorso è, per forza di cose, frammentario e poetico, anche se segue un preciso filo storico, segnato da guerre, distruzioni, atti di coraggio e manifestazioni di assurda crudeltà. Il racconto inizia con l’attentato del 28 giugno 1914, con quei colpi di pistola sparati da Gavrilo Princip sull’erede al trono Francesco Ferdinando e su sua moglie, e si estende fino ai giorni nostri, con gli orfani della guerra in Bosnia che sembrano un atroce anacronismo, oggi, nel cuore della pacifica e modernissima Europa. Questo film a episodi spia il lato silenzioso degli eventi, sulla scia di quelle tracce impercettibili che le ombre del dolore imprimono sulla faccia nascosta della realtà: si tratta di ascoltare i sussurri della gente, di sbirciare nel pensiero dei filosofi, di andare alla ricerca di pagine di diario perdute, affidate ad un vento che le ha portate lontano. Le sensazioni vanno avvolte nel silenzio, la luce si deve velare con la bruma del crepuscolo, per poter cogliere la polvere fine che si agita intorno ai grandi avvenimenti, e che continua a volare, leggera, molto tempo dopo, intorno alle inquietudini mai sopite delle persone comuni. La tempesta si dissolve in tante piccole brezze che non smettono di turbare gli orizzonti individuali sparsi per le strade, dentro le case, nelle parole scritte di nascosto, e in quelle pronunciate a fior di labbra. Buio, bianco e nero, trasparenze, suoni smorzati, voci senza volto, volti senza nome, notti infinite e giorni insensati sono gli ingredienti di base di questo collage in cui le idee, banali o raffinate, si affacciano, ribelli, dai bordi frastagliati di uno strappo che, da un secolo a questa parte, non ha ancora avuto modo di rimarginarsi. Lì dentro c’è posto per il futile chiacchiericcio borghese (La vigilia di Cristi Puiu), come per la destrutturazione dei significati verbali (Le pont des soupirs di Jean-Luc Godard), per l’umana fragilità del potente (La mia dolce notte di Kamen Kalev), e la straordinaria forza dell’innocente (Little Boy di Isild le Besco).
I concetti si mescolano, nel cuore del selvaggio melting pot balcanico, fatto di detriti di sogni patriottici (Il testamento delle nostre ombre di Vladimir Perisic), di legami imperfettamente spezzati (Il ponte di Vincenzo Marra), di speranze che escono di strada (Taci Mujo di Ursula Maier). Dai deserti dell’esistenza sono tratte vicende di uomini (L’avamposto di Leonardo Di Costanzo) e di donne (Sara e sua madre di Teresa Villaverde), mentre le memorie capitano in mano a chiunque abbia il cuore di leggerle, un ragazzo appena ventenne (Il viaggio di Zan di Marc Recha) o una donna anziana (Album di guerra di Aida Begic). I combattenti di un tempo a tratti ci parlano (Gavrilo Princip ultime lettere di Angela Schanelec), a tratti, invece, preferiscono restare muti (Riflessioni di Sergei Loznitsa).
La superficie della visione rimane comunque delicatamente increspata, dalle lacrime male asciugate, e dal timore di vedere troppo chiaramente gli effetti dell’orrore. I ponti di Sarajevo si esprime per lo più col delicato mezzo delle vibrazioni emotive, che sfiorano la sensibilità dello spettatore risparmiandogli la mortificante crudezza dell’evidenza. La sofferenza si libera del peso della cronaca, dei bilanci dei bollettini di guerra, fino a diventare la scoria di un incubo che rimane sospeso nell’aria; da lì torna, periodicamente, a posarsi nei luoghi che lo conoscono bene, e che ogni volta, con grande amarezza, lo accolgono come uno di casa.
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