Regia di Ariel Kleiman vedi scheda film
Se esiste un’ansia esibizionista nel passaggio al lungo di un acclamato regista di cortometraggi, Ariel Kleiman ha voluto schivare il rischio con troppa veemenza. Al crocevia tra opera civile e thriller psicologico, il suo esordio vaga senza direzione. Racconta una socializzazione primaria alternativa: quella in cui crede Gregori, maligno e carismatico creatore di una comunità per figli senza padri, dove lui rappresenta l’unica figura maschile di riferimento, intenta a governare le menti dei più giovani e a separarli dalla cattiveria del mondo esterno. Nel suo microcosmo, risacca di un familismo amorale sommamente filantropico, i ragazzi studiano, coltivano verdure, fanno il karaoke e vengono addestrati a uccidere, diventando killer che eseguono il loro compito senza coinvolgimento emotivo. L’equilibrio viene spezzato dalla crescita di Alexander, figlio adottivo prediletto di Gregori, che finisce per metterne in discussione l’autorità, attraverso una crescente consapevolezza raccontata con una successione di scene maldestre. È un film compresso Partisan, ricorda un pianto soffocato e mai liberato. Kleiman sembra così ossessionato dal non cadere nei cliché del genere da imporre un freno narrativo alla storia, tutta giocata su un’eccessiva tensione sotterranea. Piazza la macchina da presa su Vincent Cassel (che regala sfumature di cui sembra avara la scrittura) e sui giovani attori, alla ricerca di un fuoricampo che fatica a presentarsi.
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