Come Steve McQueen in Shame, questa volta anche Lanthimos si avvale di una sorta di "strabismo cinematografico", il quale consiste nel mantenere, da una parte, inalterata l'impronta espressiva, relativa al cosiddetto Cinema d'autore, che ha caratterizzato la sua intera filmografia (stile chirurgico, distaccato e geometrico, situazioni grottesche che pietrificano lo spettatore, critica sociale di tipo dispotico utilizzando metafore paradossali); dall'altra parte, stavolta, si avvicina pure ad un Cinema più hollywoodiano (montaggio maggiormente frenetico rispetto al solito, attori di prestigio, smussamento dello shock narrativo, mdp più "gentile", ovvero che non esclude o non taglia (quasi) mai i personaggi dal quadro visuale, etc.). Proprio per tutto ciò, si potrebbe definire The Lobster come il suo film formalmente più ambiguo e spiazzante. Tra l'altro, il lungometraggio del regista greco risulta essere il suo lavoro più nero, poiché sia l'amore che la solitudine tendono a spersonalizzare i personaggi della pellicola, imponendo ad essi delle castranti ed agghiaccianti regole. In entrambi i casi, non si è liberi di scegliere, di vivere. Nessuna delle due opzioni è salvifica. Finale beffardo, nonché superlativo, che, in un certo senso, riporta alla mente l'excipit aperto, irrisolto di Kynodontas.
Per chi scrive, The Lobster è l'ennesimo gran film di Lanthimos, il quale, per ora, non ha ancora sbagliato un colpo.
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