Regia di Giorgos Lanthimos vedi scheda film
Il trionfatore per la critica a Cannes 2015 è un film che non riesce a riportare sullo schermo i buoni intenti delle premesse, vale a dire una storia disperata in un contesto aberrante. Colpa di una piattezza generalizzata praticamente riscontrabile in ogni aspetto dell’operazione.
Con una scrittura che sembra uscita dalla penna di Charlie Kauffman, “The lobster” del greco Yorgos Lanthimos sfiora la Palma d’oro a Cannes 2015, aggiudicandosi il premio della critica. Oramai il film pseudo-indipendente (nel cast un paio di pezzi da novanta del calibro di Rachel Weisz e Colin Farrell), dall’idea forte, originale, vagamente eversiva, è diventato un prezioso jolly che registi semisconosciuti che intendono travalicare i confini nazionali ed arrivare al grande pubblico giocano sempre più di frequente.
La storia di un futuro distopico, in cui è l’amore a contare più di tutto sul piano sociologico, ma soprattutto socio-politico, è affrontata in maniera monocroma, a tinte troppo piatte per dirsi veramente interessante. Ecco che la violenza meramente psicologica, sadica, paradossale e anche grottesca che muove gli equilibri sociali di questo incubo dove l’istituzione cardine è la casa di riposo per single (all’interno della quale gli “ospiti” sono stimolati a trovare l’anima gemella, venendo, in caso contrario, trasformati in animali), rimane un buono spunto sfruttato male. Certo il senso di angoscia tipico dei regimi in cui il tutto è irrimediabilmente pilotato dall’alto viene riportato efficacemente, avvalorato da una caratterizzazione dei personaggi al limite tra nichilismo e lobotomia, così come il senso beffardo del destino (David, costretto a trovare obbligatoriamente l’amore in hotel, lo trova invece laddove è proibito, tra i ribelli).
La metafora della caducità ed inadeguatezza umana, dell’incapacità di raggiungere gli obiettivi, di trovare la felicità terrena non può da sola reggere un intero film (per quanto alcune trovate siano efficaci). Certamente una pellicola più politica che fantascientifica. D’altronde non è completamente utopistico che in un futuro prossimo la deriva sociale moderna possa portare agli scenari preconizzati da Lanthimos (o a qualcosa di simile).
In definitiva tutto molto controllato, poco approfondito. Quasi timorosamente. Recitazione piatta (volutamente), fotografia piatta (sbiadita per dare un ulteriore senso d’angoscia), storia (ap)piatt(it)a. Il tutto per conferire un’aurea di angoscia esistenziale? L’angoscia, purtroppo, viene, ma allo spettatore.
A rimanere sarà probabilmente solo il martellante tema di archi che sottolinea le principali scene di tensione.
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