Regia di Giorgos Lanthimos vedi scheda film
Alla sua prima prova internazionale, il greco Lanthimos si conferma come uno dei registi più importanti degli ultimi anni. A contatto con interpreti di fama mondiale e con un soggetto distopico di sicura presa, il sua cinema rischiava di vederne banalizzati i concetti, di smarrirne il rigore, di annacquarne la ferocia, di inquinarne la lucida visione di fondo con retorica ed umanesimo ipocrita.
Invece, non solo Lanthimos non delude, ma realizza un film che non ha nulla da invidiare al celebrato “Kynodontas”, amplificandone il discorso e rilanciandone i significati. “The Lobster” reinventa una forma cinematografica in voga negli anni 60 e 70, oggi un po’ caduta in disuso: l’allegoria politica, sociologica, antropologica. L’universo rappresentato nel film è semplicemente una trasfigurazione del presente (non si parli quindi di “futuro prossimo” o altre terminologie fantascientifiche: come anche in “Her” di Jonze, è dell’oggi che si parla): certo, nelle nostre vite quotidiane non succedono quelle cose assurde che vediamo nel film, ma è la percezione del mondo, di noi e degli altri, della società, del “sistema” ad essere affine a quella evocata dal film.
Inquadrare “The Lobster” come un film sulla coppia, sull’amore, sulla famiglia sarebbe fuorviante. L’obiettivo principale di Lanthimos non è certo quello di criticare il familismo della società contemporanea. Lo si capisce bene nella seconda parte, dove il protagonista passa dalla padella nella brace, scappando da un lager per coppie forzate per finire in un lager per single a tutti i costi! Chiaramente, il problema non è tanto lo scopo dell’oppressione fascista che si instaura in questi due regimi, ma è l’oppressione stessa, la sua logica, la sua burocrazia. Non ha senso chiedersi se sia peggio una società che ti impone di accoppiarti o una che ti impone di stare da solo: in comune, c’è sempre una costrizione, un obbligo/divieto. E’ ridicolo tanto un matrimonio forzato, basato magari solo su affinità somatiche, quanto un mondo di solipsisti perennemente rinchiusi nella loro discoteca personale (geniale la frecciata all’isolamento musicale della i-pod generation) e incapaci di collaborare ed aiutare il prossimo.
E’ evidente che Lanthimos prenda di mira le aberrazioni di una società composta da burattini, proprio come ha fatto nei tre film precedenti: “Kinetta”, “Kynodontas”, “Alps” erano tutti trattati sul comportamento coatto, eterodiretto di una umanità che ha smarrito il proprio libero arbitrio. “The Lobster” ci aggiunge, oltre all’inevitabile e grottesca ironia di fondo, una dimensione sospesa fra l’inetto di Svevo, il surrealismo e l’esistenzialismo. Il protagonista prima mente sui suoi sentimenti, solo per trovarsi una partner; poi si innamora sul serio, ma rimane intrappolato in un mondo che gli impedisce di vivere pienamente la sua passione; infine ipotizza un gesto estremo ed assurdo per amore. In tutti questi passaggi, non c’è mai un vero gesto di ribellione: il protagonista resta un conformista, cinico, completamente schiavo delle logiche del “regime” in vigore in quel momento.
Denso, stratificato, spiazzante, “The Lobster” si presterebbe più ad un saggio che ad una recensione. Un aspetto interessante, che forse costituisce la parte meno risolta del film, è lo schema narrativo: la storia è narrata da una voce off che poi si scopre essere quella dell’amante del protagonista, o meglio di colei che sta leggendo il suo diario. In una scena, inoltre, vediamo un dialogo fra due personaggi e subito dopo l’intervento della voce off a ripetere le stesse battute. Questa insolita impostazione serve forse a creare straniamento, a ribadire come i personaggi siano in qualche modo estranei a se stessi, come delle figurine manipolate; oppure semplicemente si voleva dare alla storia un tono favolistico che stridesse con la violenza, fisica e morale, che la caratterizza.
Dal punto di vista formale, Lanthimos lascia da parte i decadràge, le figure umane “decapitate”, la luminosità accecante, la recitazione in ipnosi, che si erano visti in passato, concentrandosi sulla meccanica comportamentale dei personaggi (certo in modo meno astratto rispetto ad “Alps”). Fanno il loro esordio, nella cine-grammatica del regista, i ralenti, dallo spirito antifrastico nella collisione fra musica, testo ed immagini, a metà fra Kubrick e Von Trier, all’insegna di un formalismo sempre contraddetto, problematico, sporcato. Un Lanthimos perfettamente a suo agio nella tenuta registica e nella direzione degli interpreti (tutti sopraffini, tutti eccezionali, tutti perfetti nella loro parte), come anche nel passaggio fra la deprimente claustrofobia della prima parte e l’aspra wildness della seconda (per una curiosa coincidenza, che forse coincidenza non è, entrambe le parti ricordano da vicino le atmosfere di due recenti esordi europei: la prima richiama l’albergo di “Forza maggiore” di Ostlund, la seconda la boscaglia di “The fighters” di Cailley).
Fedele a se sesso, il regista greco recupera e rielabora riferimenti ai film precedenti, come i balli forzati di “Kinetta”, il codice linguistico alternativo di “Kynodontas” o la farsa dei sentimenti di “Alps”, senza rinchiuderli in un autoreferenzialismo sterile, ma dando ad essi un nuovo respiro, servendosene come basi per un approfondimento del suo discorso politico, facendo quindi ben sperare per le future prove di questo indispensabile cineasta.
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