Regia di Giorgos Lanthimos vedi scheda film
C'è un sistema dispotico per ogni bisogno. E laddove si concepisca il dispotismo come imposizione, in realtà potrebbe anche considerarsi caratterizzato da inconscio assenso, non rassegnazione, ma spontanea conformazione a un modo di pensare, di vivere, di relazionarsi agli altri. E' questo che è terrificante in The Lobster, di Yorgos Lanthimos, già regista del terribile Kynodontas e adesso sbarcato sulle coste americane per dirigere il suo primo film in lingua inglese, leggasi primo film destinato a un mercato internazionale più vasto. Per lui una caterva di volti noti, da Colin Farrell a Rachel Weisz, da John C. Reilly a Léa Seydoux, passando anche per Ben Winshaw, e dunque al fronte di questo immenso cast si fa obbiettivamente fatica a non pensare, prima di vedere il film, che il regista greco possa un pochino essersi "adattato" a un format che preveda magari non il conformismo, ma quantomeno uno sguardo più elementare. In effetti The Lobster, rispetto a Kynodontas, manca di una certa quale intensità, che rende le scelte grottesche e sadiche quasi ad hoc, mai superflue nevvero, ma programmatiche, chiare e lampanti, tanto che sembra che il film non sortisca l'effetto sperato (sta a vedere però quale sia questo effetto) e tenda più a far parlare di sé che altro. Però, d'altro canto, molte sono le sorprese che cela questo velenoso film, e la prima riguarda proprio il rapporto che Lanthimos, in The Lobster, instaura con lo spettatore.
Il 2015 ha prodotto due film più che discreti su argomenti quali la libertà (d'amare, in particolare, ma in fondo di qualsivoglia tipo): Equals, di Drake Doremus, maltrattatissimo a Venezia 72, sorta di young adult sottilmente anomalo su un futuro dispotico in cui è proibito amarsi, e proprio The Lobster, Cannes 2015, in cui amarsi diventa un obbligo. Di fatto, se il primo manca di un'originalità forte e tira avanti, onestamente, un'idea singola, il secondo è molto meno unidirezionale, attraversato da bivii continui che mettono in crisi lo sguardo dello spettatore. Innanzitutto, la netta distinzione fra prima e seconda parte del film rivela che non c'è scampo, né da un lato, nell'albergo dove i single devono trovare un compagno in 45 giorni, né dall'altro, dove i Solitari proibiscono con altrettanta violenza ogni forma di corteggiamento o di rapporto interpersonale che vada oltre la quieta simpatia. E nonostante il film sembri lasciarlo intendere, neanche nella possibilità del sentimento e dell'umanità residua di qualcuno c'è lo slancio che possa salvare dall'apatia. Infatti gli uomini e le donne che in The Lobster si uniscono hanno bisogno di un tratto macroscopico in comune (epistassi, miopia, andamento zoppicante) per rispondere a un desiderio quasi elementare e ovvio, ingenuo, di analogia reciproca. Questo riguarda anche il protagonista, e la strana storia d'amore che lo vede coinvolto.
Più in generale, evitando anticipazioni, è interessante far notare che Lanthimos sa inquadrare un agghiacciante stato di alienazione in cui il proprio parere o la propria idea o il proprio modo di pensare diventano il punto di partenza per l'assoggettamento dell'altro, per la creazione di un microcosmo in cui i comportamenti siano comandati a bacchetta, e in cui non è contemplata libertà di alcun genere. Se Lanthimos non è il primo a parlare di uno dei mali più profondi dell'essere umano che è la sete di potere, è in effetti uno dei primi a ingannare il fruitore (lo spettatore, in questo caso) sul senso della libertà. In The Lobster non ci sono ribelli, non ci sono vere fughe, non c'è un istituzione che emette ordini o occhio ubiquo che osserva tutti: in The Lobster l'assenza di libertà è essa stessa una scelta spontanea dell'essere umano. Quest'impossibilità delle sfumature, questo dividere a tutti i costi il bianco dal nero, questo da quello, il giusto dallo sbagliato, diventa la miccia che trasforma l'essere umano in etichetta, in personaggio, in ruolo scontato. Un modo di essere che stona troppo con le potenzialità dell'essere umano. Ed è questo che Lanthimos ci fa notare: i protagonisti sono umani, non sono alieni.
E' così dunque che Lanthimos attua l'operazione più felice e riuscita di The Lobster, che diviene un silenzioso apparentemente cinico inno alla libertà del vivere: il grottesco, che sembra ricercato (ed è però ben più greve e probabilmente meno raffinato che in Kynodontas), viene fuori immediatamente dagli esseri umani protagonisti del film, è come se essi stessi si autoimponessero un atteggiamento straniante; ed è in tutta risposta la reazione dello spettatore a completare il film. Lo spettatore, posto a distanza dalla trama grazie alla regia "spezzata" di Lanthimos, che taglia le figure, le decentra, e "costringe" costruttivamente a una data visione delle cose, è libero di passare da uno stato emozionale all'altro, dal riso alla tristezza finanche alla commozione, con contorno di paura e adrenalina. E' nella libertà dell'occhio spettatoriale, libertà che prescinde gli spazi delle inquadrature del film e guarda ad altre potenzialità dell'arma Cinema, che Lanthimos riesce a far venire fuori la non-libertà autoimposta dell'umanità di The Lobster, non-libertà che esplode in un finale che sembra liberatorio, e che è in realtà ancora più desolante. E' in questo confronto l'arma vincente del Gran Premio della Giuria di Cannes 2015. Dunque un desiderio, puramente cinematografico, di non dosare la reazione dello spettatore, di non cercare in effetti lo shock gratuito, ma di lasciare a colui che osserva la possibilità di nuotare in un mondo di sensazioni (di rigetto, di attrazione, di curiosità, di disgusto) che enfatizzano la grande, profonda, bellezza dell'occhio: decidere di guardare dove vuole, se guardare o non guardare, se andarsene o restare.
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