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Macbeth

Regia di Justin Kurzel vedi scheda film

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La recensione su Macbeth

di amandagriss
3 stelle

L'uomo che volle farsi re

 

Michael Fassbender ha voluto farsi un regalo.

Confermando, prima di tutto a se stesso, di che stoffa sia fatta la sua vocazione d’attore.

Dopo la memorabile prova nello struggente Hunger, lo troviamo nuovamente calarsi corpo, ‘anima e core’ nel controverso, folle Macbeth, così bramoso di potere (lui e la sua bella ma poco incisiva signora Cotillard) da muoversi e declamare (per tutto il tempo) come in balìa di una febbre virulenta, tale da non lasciargli (e lasciarci) tregua, capace di annebbiargli la mente, accecargli la vista. Spingerlo, come guidato da un demone furioso, ad ingannare, tradire, uccidere.

Marchiando e macchiando la sua anima col nero perenne della dannazione eterna.

Lo spettatore si appresta alla visione di questa nuova versione filmica della tragedia shakespeariana accarezzando la convinzione che dopo le prime piuttosto promettenti battute -atmosfere tetre il giusto, fascinose le ambientazioni (la brughiera scozzese è silente ma presente protagonista), curati i dettagli (dai costumi alle scenografie, dal trucco alla coreografia delle battaglie corpo a corpo)- ne venga naturalmente risucchiato, finendo con lo sposare empaticamente le traversìe di quest’uomo (e della sua donna) a cui il fato ha provveduto a tracciarne, nel bene e nel male, senza appello, la sorte.

Purtroppo, la scintilla non scocca, e tra chi guarda in sala e chi sullo schermo si autocompiace senza freni (che pare ripetersi ad ogni scena quant’è bravo), si crea una distanza tanto invisibile quanto palpabile.

Raffreddando la febbre che le intenzioni vorrebbero trasmettere in platea, per infettarla dello stesso morbo farneticante del quale il protagonista è preda irrecuperabile.

A nulla vale il contributo tecnico-formale, che innegabilmente aiuta ad immergerci nei fatti (riassumibili in iper-ragionate diaboliche congiure assassine dei 2 sposi), dal momento che bisogna fare i conti con studiatissimi picchi enfatici che l’efficace commento musicale sottolinea a dovere quando non è impegnato a crearli direttamente, così da vestire di ritmo la monocorde inutilmente lenta, per non dire inerte, narrazione per immagini (ad alta definizione) e innervare di tensione una storia che piattamente gira su se stessa e al contempo, come un disco rotto, attorno al sibillino vaticinio delle ‘parlatrici imperfette’, suo centro di gravità permanente.

E dal momento che a risultare un ostacolo al coinvolgimento emotivo è proprio l’asso nella manica di una direzione mai sciatta eppure senza carattere, incapace di distinguersi e, perciò, farsi ricordare, perché pavida o impossibilitata ad osare fino in fondo (la -scialba- morte di Lady Macbeth come la bella -poteva essere bellissima- scena finale che avrebbe meritato un lungo piano sequenza, senza interruzioni). Ovvero, la ‘parlata arcaica’, fedele al testo originale, ieratica fino all’astrazione, fino al risibile: è come se i personaggi nel momento di abbandonarsi ai fiumi in piena di solenni, gravi parole (via via alienanti per lo spettatore) si tirassero fuori dal contesto e, come in uno stato di trance, parlassero a se stessi o pensassero ad alta voce o dialogassero senza però riuscire ad ascoltarsi fra di loro.

Creando una punta di confusione.

Infiniti (perché troppo dilatati), stremanti monologhi/soliloqui suscitano, quindi, la netta sensazione di annullare/vanificare la storia, scollandosi dalla materia filmica in cui sono infelicemente incastonati per vagare come bolle di sapone nel vuoto pneumatico di un film che solo a tratti si ricorda di essere tale.

Inoltre, svuotano di senso le parole pronunciate dai personaggi e rendono improduttive di qualsiasi moto di commozione le performance degli attori (Fassbender e Cotillard) chiamati a infondergli quel necessario alito di vita affinché la tragedia dalla carta arrivi fino a noi, in attesa di saggiarne la torbida consistenza.

Pare chiaro, dunque, che strutturare l’opera scegliendo di condensare in un unicum idealmente vincente elementi tipicamente teatrali (la recitazione impostata fatta di assoli che spazzano via il fattore tempo) e caratteristiche prettamente cinematografiche (le scene di guerra come lo stesso sviluppo degli eventi), nei fatti, risulta un’operazione fallimentare.

La frattura insanabile tra cinema e teatro che se ne ricava manda al macero questa versione 2.0 dell’opera di Shakespeare, film sterile, fintamente visionario, tronfio, assurdamente pesante, assolutamente trascurabile per il pubblico, fondamentale per gli attori che lo hanno interpretato.

A volte si recita unicamente per se stessi.

E adesso, anche Michael Fassbender può dire di saperlo.

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