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The Program

Regia di Stephen Frears vedi scheda film

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La recensione su The Program

di maurizio73
3 stelle

Confuso e indeciso tra una rappresentazione di finzione di fatti reali in cui le psicologie dei personaggi sembrano appiattite sul versante di un incomprensibile pregiudizio mefistofelico e l'insopportabile clichè del film a tesi con l'algido schematismo di un'operazione verità che puzza di mistificazione lontano un miglio.

Esordio, malattia, ascesa e caduta di Lance Armstrong, uno dei più grandi fenomeni del ciclismo moderno passato dagli altari degli Champs-Élysées alla polvere delle accuse di doping, fino alla definitiva revoca dei suoi maggiori titoli sportivi. Tutto secondo la ricostruzione dei fatti del suo più attento osservatore e grande detrattore: il giornalista sportivo del Sunday Times, David Walsh.

 

locandina

The Program (2015): locandina

 

Il giallo della maglia gialla più controversa della storia del ciclismo in un biobic on cyclette del britannico Stephen Frears è l'adattamento decisamente sbiadito del libro-inchiesta del suo conterraneo David Walsh (Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong): una cronaca noiosetta e romanzata di una vicenda umana e sportiva che si tiene lontana tanto dalle spettacolari fatiche dalla Grande Boucle quanto dalla complessità di un fenomeno ben più ampio di cui pare non volere o sapere cogliere la reale dimensione epocale. Che il ciclismo fosse uno sport ostico e difficile da rendere da un punto di vista cinematografico è una cosa di cui il film di Frears pare non fare mistero, mantenendosi quasi sempre a bordo pista e più spesso nelle retrovie di una carovana sportiva trasformata nell'ospedale da campo di una pratica farmacologica fraudolenta e pericolosa; ma ciò che lo rende una ricognizione documentaria sanza lode e con molte infamie è piuttosto lo sposare l'insopportabile clichè del film a tesi con l'algido schematismo di un'operazione verità che puzza di mistificazione lontano un miglio.
Confuso e indeciso tra una rappresentazione di finzione di fatti reali in cui le psicologie dei personaggi sembrano appiattite sul versante di un incomprensibile pregiudizio mefistofelico ed una disonesta videocronaca di vicende notorie giudicate col senno di poi, questa cronoscalata verso la vergogna e il disonore di una gogna mediatica fuori campo sembra l'inutile accanimento terapeutico verso una singola cellula malata di uno dei cancri del nostro tempo (la frode nello sport in generale e nel ciclismo in particolare) che si guarda bene dal j'accuse generalizzato verso un sistema disonesto e metastatico di cui si limita a fornire solo indizi labili ed inconsistenti: la connivenza delle istituzioni sportive, l'interesse economico degli sponsor, la resilienza corporativa degli atleti, persino la stupidità interessata dei mezzi di informazione. Ne riesce un quadro parziale e altrettanto ingannevole quindi, in cui l'attore principale sembrerebbe solo un diabolico arrivista texano che sperimenta sul proprio corpo le venefiche pozioni di un elisir, se non di lunga vita, almeno di lunga vittoria; capace quasi da solo di tenere in scacco un sistema di controlli e arginare le falle di una teoria del complotto che vanta centinaia di testimoni per più di una ventina di anni. Nessuna disamina seria quindi di un fenomeno che avrebbe meritato un trattamento più rispettoso dell'intelligenza dello spettatore e più amore per la verità dei fatti, ma uno scialbo sensazionalismo in cui le bugie non solo non hanno le gambe corte ma sono in grado addirittura di vincere sette, dicasi sette, Tour de France di fila. Roba che Hinault ancora si morde le mani e Fausto Coppi non ha ancora finito di rivoltarsi nella tomba. Attori sotto il livello di guardia e un Dustin Hoffman nel ruolo di uno spericolato speculatore assicurativo che in queto film c'entra come i cavoli a merenda. Quando dicevo che quello là non me la contava giusta non mi credeva nessuno.

 

"Io sto qui che aspetto Bartali
scalpitando sui miei sandali...
e tu mi fai dobbiamo andare al cine…
…e vai al cine vacci tu"

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