Regia di Stephen Frears vedi scheda film
L’epopea di quello che è stato considerato uno dei massimi esponenti del ciclismo di tutti i tempi, eroe creatosi da solo a suon di carattere e determinazione, oltre che predisposizione fisica (nemmeno troppa, a giudicare da quanto ci viene raccontato nel film) che combatte e sconfigge la malattia grave e spesso senza appello sconfiggendola, e tornando a primeggiare come e più di prima.
La sorpresa, l’amarezza, la delusione nello scoprire che anche lui, come e più di una buona parte di altri corridori, è stato implicato nello smercio ed assunzione di sostanze dopanti atte a moltiplicare e dunque falsare le proprie performances per divenire quasi un automa, una macchina per vincere e tagliare traguardi sempre più avveniristici ed impossibili, simbolo di invincibilità, ma anche di disonestà, di una truffa e di uno scandalo senza precedenti.
Dalla sua, il valido e versatile regista Stephen Frears - non nuovo ad affrontare biopic su personaggi illustri o arci noti - ha senz’altro la condivisibile scelta di raccontare senza troppe prese di posizione, ma privilegiando l’aspetto cronachistico, la complessa vicenda che avvolge, tra gioie e dolori, eccitazione ed amarezza, il celebre sportivo: il percorso a saliscendi, come una tipica tappa di montagna del resto, del noto corridore americano Lance Armstrong: l’ascesa subito tentennante, poi inarrestabile, la caduta rovinosa a causa del tumore che lo piega ma non lo affossa, il ritorno da miracolato, e la nuova caduta rovinosa, questa volta vergognosa, macchiata da dubbi che in seguito vengono confutati da prove sempre più schiaccianti.
Certo cinema e sport spesso cozzano tra di loro per la troppo differente tecnica di rappresentazione che il primo, costruito ed effettato per definizione, fornisce del secondo, che invece al contrario agisce, si caratterizza, e piace proprio per sua la naturalezza e la spontaneità, caratteristica che rende gli atleti degli uomini forse speciali, ma pur sempre uomini.
E come il pugilato soffre inevitabilmente di credibilità quando a dare e ricevere pugni ci troviamo innanzi Rocky Balboa, così riprese tecnicamente accattivanti di salite inquadrate con l’angolatura vertiginosa che ne accentua le pendenze, e certi vezzi di personaggi un po’ sopra le righe (tra tutti il medico italiano Ferrari, il re del doping e personaggio tentatore e viscido come un rettile) appaiono certamente forzati e sopra le righe per poter risultare credibili e non personaggi romanzati o edulcorati.
Ben Foster, per quanto manierato e lasciato molto a briglie sciolte, ha una presenza magnetica che riesce tuttavia ad apparire coerente a rappresentare il difficile personaggio che ha l’onere di interpretare.
Ed in sostanza il film, trasposizione di un famoso libro di David Walsh “Seven Deadly Signs”, a metà strada tra il racconto di un’inchiesta e la denuncia di un mondo davvero finito allo sbando, letteralmente avvelenato da una scienza amorale e pure mortale, ci appare come un’opera minore per un regista del rango di Frears, ma anche una non banale prova di coraggio da parte di un regista in grado di mostrare ogni volta la propria eccellente versatilità di stile e racconto.
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