Regia di Stephen Frears vedi scheda film
"Non sono mai risultato positivo ad un controllo antidoping"
Questa frase ripetuta più e più volte fino al parossismo racchiude in un certo senso la parabola del falso campione Armstrong. Il motivo è semplice: il fatto di non essere risultato positivo ad un controllo, non implica affatto di non aver assunto sostanze illecite. Solo è stato più scaltro di coloro che operavano i controlli.
L'affermazione di Armostrong è comunque una verità che mette il campione al riparo dalla sua coscienza sporca e coltivare all'infinito la sua ambizione di vincere sempre e comunque e primeggiare. Vincere il cancro che lo aveva colpito per diventare egli stesso il cancro maligno del ciclismo. Essere più bravo di tutti non solo nel vincere, ma anche nel barare.
Se avesse affermato di non essersi mai dopato il peso era maggiore da sopportare, perchè questa sarebbe stata una vera menzogna. Così invece é un compromesso semplice che tuttavia evidenzia il sottile rapporto fra vero e falso, che è l'aspetto migliore di questo film, peraltro sottolineato anche nel buon documentario di Alex Gibney, The Armostrong Lie, dove il gioco veniva smascherato quasi in tempo reale.
Anche io quando seguivo il ciclismo, come il giornalista, Walsh ero stupito dalla trasformazione di un ciclista da grandi classiche di un giorno ad un dominatore assoluto di grandi corse a tappe, considerati i precedenti pre malattia, ma lo scudo del ragazzo americano di talento che vince il cancro, lo ha reso intoccabile agli occhi del pubblico per lunghi anni e gli ha dato un credito pressochè illimitato all'interno del mondo ciclistico che lo aveva scelto come simbolo di campione pulito dopo l'Affaire Festina. Il film di Frears è lungi dall'essere un capolavoro, ha un incedere incalzante e la solidità dell'interpretazione di Foster, ma anche quest'ultima si appiattisce in una seconda parte dove lo stesso personaggio di Armstrong viene mostrato come una sorta di Tony Montana del ciclismo, un padrino dominatore della corsa e della coscienza dei propri gregari. Pessima la caratterizzazione di Ferrari, ridotto alla stregua dei soliti stereotipi anglofoni sugli italiani (un attore italiano era troppo?), Hoffman ridotto a poco più di un cameo. Qualitativamente sufficiente, ma il difetto maggiore è che non riesce ad essere diverso dal solito biopic. Il documentario di Gibney è senza dubbio migliore.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta